Si può imparare l'arte di vivere? Si possono conciliare le diverse esigenze che ci assalgono nella vita di ogni giorno? Si può praticare anche oggi l'antica virtù dell'imperturbabilità? Anselm Grün insegna a proporsi delle mete, a stabilire delle priorità e a organizzare il proprio tempo per trovare la pace e l'equilibrio dell'anima.
Oggi noi impariamo durante tutto l'arco della vita, impariamo mille cose. Ma impariamo anche le cose vere? Impariamo ciò che è davvero importante? Si può imparare l'arte di vivere, ci si può addestrare? Ancora: come possiamo conciliare le diverse esigenze che ci assalgono nella vita di ogni giorno? In che modo si uniscono i poli che si trovano in noi, come si conciliano i bisogni diversi e contrastanti che abbiamo? Può trovare equilibrio la nostra anima? Si può praticare anche oggi l'antica virtù dell'imperturbabilità che è stata tanto importante per i sapienti maestri dell'arte di vivere? Questo breve libro sulla "scuola di vita" di Anselm Grun, che è consigliere spirituale di molte persone, ci insegna come fare a proporci delle mete e a organizzare il nostro tempo. Sopportare le tensioni e trovare la pace interiore. Sviluppare buoni rapporti e arrivare tuttavia a noi stessi. Restare aperti. E al tempo stesso dare alla nostra esistenza la leggerezza e la gioia della vita, ogni giorno. Un piccolo libro sulla grande arte della vita sana e felice.
AUTORE
ANSELM GRUN, nato nel 1945, dottore in teologia e monaco benedettino, è priore amministratore dell'Abbazia di Munsterschwarzach in Germania. È noto come uno dei più fecondi e letti autori di spiritualità in campo internazionale. Tra le sue opere principali: - Come essere in armonia con se stessi; - Non farti del male.
INTRODUZIONE
Una piccola scuola di vita
La mattina del 7 agosto 1974 ero a Manhattan. I newyorkesi che in quel giorno, poco prima delle 8, uscivano come tutte le mattine dalle stazioni della metropolitana e delle linee ferroviarie suburbane per raggiungere i loro posti di lavoro e i loro uffici, si fermarono nelle strette e affollate vie di Manhattan. All’inizio erano pochi, poi sempre di più. Guardavano increduli verso l’alto, verso le Twin Towers, le torri argentee del Worl Trade Center che sarebbe stato inaugurato di lì a un anno. Lassù in alto, dove le cime dei grattacieli toccano quasi le nubi, si librava nell’aria un uomo. Era il funambolo francese Philippe Petit. Si muoveva a un’altezza di oltre 400 metri con un’asta di equilibrio su una sottile corda d’acciaio tirata tra le due torri con un dispositivo a balestra.
Era appena arrivato dall’altra parte quando arrivò lassù anche la polizia. Quando i funzionari bloccarono Philippe Petit e gli chiesero ragione del suo gesto, egli non capì bene la loro domanda: «Dovevo farlo – disse. È una necessità interiore. Quando io vedo tre arance, devo fare giochi di destrezza. E quando vedo due torri, devo andare». Raccontò poi che quando aveva visto le due torri di Notre-Dame di Parigi, aveva fatto la stessa cosa che adesso faceva a New York. I poliziotti di New York non gli credettero e lo spedirono in una clinica psichiatrica. Il medico però constatò che Philippe Petit non era matto. «È sano e sprizza energia da ogni parte», fu la sua diagnosi. Alla fine i poliziotti si fecero convincere che non aveva camminato sulla corda per destare scalpore, neppure per guadagnare del denaro o perché voleva esibirsi davanti alla gente. Si trattava solamente di un impulso interiore: aveva visto due torri e aveva sentito il bisogno di superare la distanza che le divideva. Alla fine poliziotti e funambolo si lasciarono in amicizia. L’artista non venne punito, ma dovette promettere di fare le sue esibizioni funamboliche davanti ai bambini di Central Park.
La stampa mondiale parlò dell’evento e gli artisti di tutto il mondo fecero di Petit un loro modello. Anche Henri J.M. Nouwen, il grande scrittore di testi spirituali che considerò sempre il circo un modello di vita spirituale, restò affascinato da Philippe Petit perché senza discutere fece quello che avvertiva dentro di sé come una necessità. Questa sensazione non è collegata soltanto a New York. Molti hanno visto all’opera i funamboli anche in un piccolo circo e ne sono rimasti affascinati. Da dove deriva questo fascino? Non fanno qualcosa di utile, non fanno fare passi avanti alla conoscenza, quello che fanno accade in poco tempo, è un evento di pochi minuti. Quando l’esibizione è finita, rimangono soltanto un sentimento e il ricordo di un’immagine. Tuttavia, in questa emozione e in questa immagine ci colpisce qualcosa che riguarda un livello più profondo e che ha a che fare con la paura che abbiamo per la nostra felicità. È il desiderio profondo di conservare il nostro equilibrio in situazioni difficili, la speranza di non soccombere malgrado tutte le minacce che incontriamo nella nostra vita.
Trovare il giusto equilibrio è un’arte. I funamboli esercitano quest’arte su una corda sospesa in alto, raccogliendo applausi e suscitando entusiasmo. Questo soprattutto quando esibiscono la loro arte dove noi per paura perderemmo l’equilibrio. Philippe Petit provava un impulso interiore che lo portava a mostrare che era possibile camminare sulla corda, sospeso lassù in alto, senza precipitare. E noi, da spettatori, siamo colpiti da questo misto di pericolo e sicurezza, di abilità, leggerezza e tensione, e siamo interpellati anche nella profondità del nostro sentire.La lingua stessa ci indica che cosa è in gioco anche in quest’esperienza: il termine tedesco Balance (bilanciamento, equilibrio) ha la stessa radice del vocabolo Bilanx (bilancio, bilancia). Il bilancio confronta e mette in equilibrio avere e dare, guadagni e perdite, entrate e uscite. Gli imprenditori li mettono a confronto e sperano di poter arrivare a fine anno a un bilancio in pareggio. Quello che vale per il risultato di un’azienda, possiamo applicarlo anche alla nostra vita personale. In questo senso si parla di «bilancio della vita». Quando facciamo questo bilancio, vorremmo che pareggiassero realizzazioni e delusioni, alti e bassi, gioie e dolori e vorremmo non trovarci in una situazione spirituale sbilanciata. Vorremmo essere in equilibrio interiore e non essere tirati verso il basso dalla forza di gravità.
I latini parlano qui di «aequo animo», di equilibrio dell’animo o di equanimità. San Benedetto chiede al cellerario, che è il responsabile dell’andamento economico del monastero, che assolva il suo compito «aequo animo». Aspetti interiori ed esteriori devono essere in sintonia. Al termine dell’anno il cellerario deve presentare al monastero non soltanto un buon bilancio, deve fare un bilancio anche di se stesso. I problemi dell’amministrazione non lo devono distogliere dall’equilibrio interiore, ma egli deve valutare ogni cosa con spirito tranquillo e di larghe vedute. Per Benedetto l’equilibrio ha bisogno di apertura e ampiezza d’animo. Chi è contratto non riesce a reggere. Può essere facilmente travolto. Abbiamo bisogno di apertura e di ampiezza d’animo per non perdere l’equilibrio alla prima delusione o alla prima offesa.
Lo psicologo svizzero C.G. Jung dice che ogni essere umano ha sempre in sé due poli: il polo dell’intelletto e del sentimento, dell’amore e dell’aggressività, della coscienza e dell’inconscio, del maschile e del femminile. L’arte dell’incarnazione consiste nel tener conto di tutti e due questi poli. Per lo più accade invece che l’essere umano nella prima metà della vita vive in modo consapevole soltanto un polo. Allora il secondo finisce nell’inconscio. Qui Jung parla di ombre. Nell’ombra c’è tutto ciò che abbiamo escluso dalla vita. Ma finché questo resta nell’ombra, esercita un effetto distruttivo sulla nostra anima. Il sentimento represso si manifesta in sentimentalismi, siamo sommersi dai sentimenti e non riusciamo più a rapportarci a essi in modo adeguato. L’aggressività repressa si manifesta in severi giudizi sugli altri o in atteggiamenti di depressione. Spesso l’aggressività dormicchia sotto una facciata cordiale. Dietro questa cordialità però si notano le frecce che questa persona scaglia con forza. Per diventare se stessi è necessario accettare l’ombra e integrarla. Dobbiamo mettere in equilibrio conscio e inconscio. Quest’equilibrio tuttavia non è qualcosa di statico. Gli psicologi preferiscono parlare di «equilibrio instabile». Dobbiamo continuamente ritrovare quest’equilibrio vitale.
Nella tradizione spirituale dell’ultimo secolo è stato soprattutto il filosofo della religione Romano Guardini a interessarsi della giusta tensione e del giusto equilibrio dell’uomo. La sua spiritualità si basa quindi su una filosofia dell’antitesi, che questo pensatore ha sviluppato. In essa Guardini afferma che ogni essere vivente si presenta come antitesi: antitesi di dinamica e statica, di forma e volume, di totalità e individualità, di originalità e regola, di immanenza e trascendenza. La vita è sempre bilaterale, polare. Eppure essa esige unità. Quest’unità però non toglie l’antitesi, ma crea una tensione nuova, un buon equilibrio. Guardini si oppone quindi a tutte le esagerazioni che si manifestano continuamente nella spiritualità cattolica. Guardini si colloca qui in una buona e lunga tradizione. Infatti già i primi monaci pensavano che «ogni eccesso proviene dai demoni». Dicevano che se io mi preoccupo soltanto di essere pio e scavalco i miei bisogni umani, spesso la mia religiosità sarà inficiata da bisogni banalissimi, come per esempio il bisogno di riconoscimento e di attenzione, di potere e di valore. La verità di quest’affermazione mantiene ancora oggi tutta la sua validità.
Si potrebbe definire questo piccolo libro anche una «Piccola scuola di vita». «Non dobbiamo imparare per la scuola, ma per la vita», si dice da sempre. Oggi i pedagogisti, quando osservano le esigenze sempre nuove della società moderna, parlano di apprendimento per tutto il corso della vita. Noi oggi impariamo molto, ma c’è troppo poco spazio per la scienza elementare della vita, che in passato veniva trasmessa dalla tradizione o dagli esempi personali. Infatti non si tratta solamente di acquisire abilità che possiamo impiegare e sfruttare. Quanto meno di questo non si tratta quando parliamo di una vita buona e riuscita. Se il problema è capire che cosa genera una vita ordinata e sensata, è necessario considerare anche il giusto equilibrio, il bilanciamento tra le diverse pretese che assalgono l’individuo da ogni parte, occorre trovare il giusto atteggiamento di cui abbiamo bisogno perché la nostra vita possa procedere bene. Ogni giorno dobbiamo ‘addestrarci’ in questo equilibrio. È un esercizio sempre nuovo che dobbiamo fare.
La maturazione e lo sviluppo non hanno termine. Nella scuola della nostra vita dobbiamo trovare in noi stessi il giusto equilibrio tra i poli. Perciò i quindici capitoletti di questa scuola di vita sono sempre svolti in modo da considerare, accanto a un aspetto determinato, anche il suo opposto.
Io sono debitore a san Benedetto per questo tipo di scuola di vita. Benedetto ha scritto nella sua Regola di voler istituire per i monaci una scuola del servizio del Signore: «Speriamo, nel farlo, di non avere a stabilire nulla di gravoso e di pesante. Ma dovesse anche seguirne qualche cosa di più rigoroso, suggerito da una giusta considerazione per l’emendazione dei vizi o per la conservazione della carità, non lasciare subito, impaurito, la via della salvezza, che non si può intraprendere se non per un ingresso stretto. Col progresso poi della vita spirituale e della fede, dilatato il cuore, con indicibile sovranità d’amore, si corre la via dei comandamenti di Dio» (RB, Prologo 46-49 [ed. it., Vita di San Benedetto e la Regola, Città Nuova, Roma 1995, 111-113]).
Benedetto vuole insegnare ai suoi monaci la polarità della vita. Attraverso la strettezza il monaco arriva all’ampiezza. Benedetto non vorrebbe proporre nulla di duro. Ciononostante, esorta i suoi monaci ad accettare una certa austerità. Per diventare persone sagge e mature c’è sempre bisogno dunque dei due poli. Benedetto parla di arte spirituale, di ars spiritualis. Vuol dire che il monaco deve apprendere una certa abilità in quest’arte della vita sana. A tale scopo ha bisogno di strumenti e di un laboratorio. Per Benedetto questo laboratorio è lo spazio di vita dei suoi monaci, il monastero. Gli strumenti sono gli insegnamenti della Bibbia e le conoscenze della tradizione ecclesiastica.
Il nostro laboratorio, il nostro luogo di apprendimento è la nostra vita quotidiana. E la scuola di vita – come ogni scuola e ogni apprendimento – ha bisogno di esercizio, di ascesi. Nella filosofia greca della Stoà ascesi significa addestramento alla virtù. L’ascesi è sempre anche addestramento alla libertà interiore. Benedetto afferma che i monaci si addestrano benissimo alla libertà interiore e alla virtù se utilizzano gli strumenti dell’arte spirituale e vanno quindi alla scuola di un maestro spirituale nel laboratorio del monastero.
Vorrei quindi invitarti, caro lettore, cara lettrice, a frequentare nelle pagine che seguono la scuola dei maestri della vita spirituale che sono stati e sono anche i miei maestri e ad apprendere così l’arte della vita sana.
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BARBARA SGARIOTO il 4 novembre 2010 alle 11:02 ha scritto:
Testo eccezionale che aiuta il lettore a cercare di raggiungere quell'equilibrio che spesso manca alla nostra esistenza. Può essere consigliato a che si occupa di una catechesi rivolta agli adulti o a tutti coloro che vogliono raggiungere la giusta serenità interiore. Preziosissimo dono da fare alle persone che più si amano.