Dire vita è dire ritmo. Il battito cardiaco che pulsa il sangue nelle vene, l’alternanza di veglia e sonno, una danza di corteggiamento, la risacca del mare, la rotazione dei pianeti e lo spin delle particelle subatomiche. All’origine dell’esperienza e del pensiero, del linguaggio e del sentimento del tempo, il ritmo lega l’interiore con l’esteriore, la soggettività con il mondo. È un fenomeno che si manifesta a livello semplice e complesso, biologico e culturale, capace di dare forma all’uomo, alle sue pratiche sociali come ai suoi riti più elaborati. Questo libro costruito intorno alla parola ritmo è un incredibile viaggio che comincia alle radici della vita e la attraversa fino alle sue dimensioni più spirituali e profonde.
Autore
ROBERTO TAGLIAFERRI, docente di teologia presso l’Istituto di liturgia pastorale Santa Giustina (Padova), si interessa di problemi epistemologici riguardanti la teologia e la liturgia in rapporto all’antropologia del rito. Autore di numerosi saggi e articoli sull’architettura dello spazio sacro e sui linguaggi estetici, con le Edizioni Messaggero ha pubblicato: La «magia» del rito (2006), Percorsi d’arte. Per non morire di verità (2007), Liturgia e immagine (2009), La tazza rotta. Il rito risorsa dimenticata dell'umanità (2009), Saggi di architettura e di iconografia dello spazio sacro (2011), Sacrosanctum. Le peripezie del sacro (2013), Il cristianesimo «pagano» della religiosità popolare (2014).
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
L’esperienza del ritmo
1. Il ritmo originario
Il ritmo sarebbe all’origine della nostra coscienza e della nostra esperienza del mondo. Questa tesi non è così ovvia perché difficilmente si trovano indagini di tipo filosofico ed epistemologico su questo tema. Paul Valéry rimproverava che su questo fenomeno c’è molta confusione. Probabilmente l’analisi si ferma abitualmente alla superficie della periodicità del movimento, ma non riesce a cogliere la congruenza delle sue manifestazioni nei diversi ambiti fisiologico, culturale, estetico, cosmico, e soprattutto fatica a collegare il ritmo con la nostra conoscenza.
La prospettiva di indagine proposta tenterà di muoversi dai ritmi percepiti nel corpo per aprirsi ai fenomeni culturali e poi per tentare un allargamento cosmologico ai ritmi dell’universo. L’interesse cadrà anche sulla ricerca di un fondamento del ritmo attraverso il metodo fenomenologico-cognitivo per evitare che il ritmo sia una realtà esterna al soggetto e per comprendere come esso stia alla base del rapporto tra natura biologica e mente umana, nonché all’origine della comunicazione intersoggettiva.
Il ritmo sarebbe una specie di vibrazione in cui si entra in risonanza con il mondo e con gli altri. Esso ordinerebbe il meccanismo di fusione, che Edmund Husserl chiama «enteropatia estetica», cioè il completo sentirsi uno con il mondo e con l’altro, pur rimanendo l’alterità nella sua irriducibile differenza. Il mondo sarebbe come una cosmica onda magnetica, che verrebbe dal primo vagito dell’universo, e tutto sarebbe una risonanza di quell’onda originaria, compreso il nostro modo di conoscere coscienziale. Tutto vivrebbe di questa danza cosmica, di questa ritmica universale. Nessuna cosa sarebbe statica perché anche nel più infinitesimale elemento del mondo vi sarebbe un ritmo, un coimplicarsi di forze sempre in movimento. Esso forse sarebbe l’origine della vita cosmica, di cui la vita umana è solo un’emanazione caratteristica con la capacità di coscienza, cioè di autorappresentazione del tutto nella parte. Ritmo sarebbe la vita nella sua configurazione dinamica ed energetica, che nell’uomo porta con sé la sua autocoscienza e la traccia di uno slancio vitale misterioso nei suoi inizi e nei suoi esiti.
Procederemo dunque con una descrizione fenomenologica. Il primo livello di indagine riguarderà la vita fisica del nostro corpo con i principali ritmi che lo caratterizzano.
2. Ritmo e corpo
La primaria esperienza ritmica è il corpo, che purtroppo è stato a lungo emarginato nella tradizione occidentale. Il corpo è l’oggetto dimenticato ed è il luogo primo della rivelazione del ritmo. Esso si può definire proprio a partire dalla sua costituzione pulsionale e ritmica perché articola la percezione con la sensazione e con la significazione. Sulla scorta della magistrale lezione di M. Merleau-Ponty, il ritmo interfaccia mente e corpo, in quel plesso nevralgico di scambio tra biologico e mentale, che il cognitivismo chiama Body-mind e che Varela, Thompson e Rosch chiamano Enactivism. «Siamo d’accordo con Merleau-Ponty – scrivono i tre neuroscienziati – sul fatto che la cultura scientifica occidentale richiede che vediamo i nostri corpi come strutture fisiche e come strutture vissute, esperienziali – in breve come fenomeni internamente ed esternamente biologici e fenomenologici. Questi due aspetti dell’embodiment sono ovviamente non opposti».
L’indagine sui ritmi principali del corpo attraversa molte esperienze e molte attività, che solo a titolo didattico abbiamo diviso tra involontarie e volontarie.
2.1. I ritmi involontari del battito cardiaco e del respiro
La cronobiologia si occupa dei ritmi biologici. Il ritmo è una successione di fenomeni simili che si ripetono secondo periodi e frequenze, come il respiro o il battito cardiaco. L’impulso elettrico è dato dalla differenza tra il potenziale intracellulare ed extracellulare ed è chiamato «transmembrana». Esso è determinato dal «gradiente elettrochimico», che permette un flusso di ioni dall’ambiente più concentrato a quello meno concentrato. Un altro fattore che regola le correnti ioniche è la permeabilità della membrana cellulare e l’attivazione di pompe elettrogeniche, che scambiano il sodio con il potassio e il calcio. Il cuore risulta così come una pompa ritmica, che regola la circolazione sanguigna e l’ossigenazione del sangue venoso. Di fatto esso è come un «orologio biologico», simile ad altri congegni osservabili a tutti i livelli, dagli organismi unicellulari, agli animali, alle piante.
Su questa struttura biologica elementare e involontaria si innesta una struttura simbolica, che è all’origine del linguaggio metaforico umano almeno nella sua caratteristica espressiva di tipo ritmico. È opportuno anticipare questo livello coscienziale, anche se sarà sviluppato più ampiamente nel secondo capitolo, perché appaia subito chiaro il rapporto immediato tra il biologico e il simbolico. Un fenomeno molto illuminante per comprendere questo rapporto è descritto da Carlo Sini nel momento magico e incantato della percezione del battito del cuore materno da parte del feto. «Prima ancora di nascere vi è un certo momento in cui questo essere, che ancora non è diviso, che ancora è confuso con la madre, a un certo punto mostra, attraverso tracciati cerebrali, che percepisce il ritmo del cuore materno, cioè che il suo pulsare, il pulsare del suo sangue, del suo cuore, non è più tutt’uno con la madre, non è più il ritmo della madre; piuttosto, ha il ritmo della madre, fa esperienza di questo ritmo, lo ascolta, lo percepisce, e in una certa misura, che non sappiamo quale sia, lo riconosce, ne fa esperienza». L’esperienza del primo battito della madre avviene quando si percepisce un secondo battito, che non fa coincidere il bimbo con la madre. Questa soglia permette la distinzione dalla madre e non può essere tutt’uno con il corpo della madre. Il ritmo si instaura nel differenziale tra il primo toc del cuore materno e il secondo toc. Se ci fosse solo il primo non ci sarebbe niente perché tutto è quel toc, il bambino è quel toc. L’esperienza del primo è svegliata dal secondo, anche se il primo toc sta a fondamento del secondo. Lo scarto differenziale costituisce l’esperienza del ritmo. Questo è il paradosso inconcepibile per il pensiero metafisico tradizionale: «Che in principio è il due, non l’uno. Che si può percepire solo avendo già percepito, che si può conoscere solo avendo già riconosciuto». Esso sarebbe la condizione di tutto, anche del pensiero e del linguaggio. Conoscere è allora ri-conoscere, come aveva già intuito Platone. La percezione del ritmo avviene con il secondo toc, che è un «secondo improprio» perché è il secondo di un primo irreale, mai udito e che tuttavia sta all’origine anche del secondo.
L’esperienza è sempre un frammezzo, una soglia tra un primo e un secondo. Così camminiamo, così danziamo, così suoniamo e cantiamo, così scriviamo poeticamente nel ritmo del frammezzo tra il battere e il levare, tra un passo e l’altro, tra un accento breve e un accento lungo. «Quello che sperimentiamo in ogni istante è un’onda, anzi è un’onda circolare, è una provocazione. Il toc della madre, nel nostro esempio è la provocazione che risuona al confine e all’orlo della possibilità del bambino. Il bambino emerge nel momento in cui accoglie la provocazione, fa spazio, si allarga alla provocazione stessa, le dà luogo; cioè le risponde, la avverte come provocazione».
Il battito cardiaco diventa insomma il ritmo interno alla base di tutte le nostre esperienze e di tutti i nostri linguaggi. È come se vi fosse una forza misteriosa inscritta dentro di noi, che ci fa vibrare al ritmo del battito cardiaco. La natura pulsionale dell’uomo è fortemente debitrice di questa struttura ritmica della vita. Il bambino appena si regge in piedi tende a fare passi di danza quando sente una musica o una canzone perché entra in risonanza con qualsiasi fonte ritmica. Quando il cuore fa i capricci ne risente tutto l’organismo perché è come se venisse meno il maestro d’orchestra che dà il tempo a tutti gli strumenti musicali per una esecuzione armonica.
Legato al ritmo cardiaco c’è il respiro, che è un altro movimento involontario regolato da due meccanismi neurologici: uno responsabile del controllo volontario corticale, l’altro di quello automatico del cuore. Tutto il corpo partecipa al movimento del respiro dilatandosi e costringendosi secondo modi e ritmi individuali determinati da un’infinità di fattori interni ed esterni alla persona e perciò continuamente variabili. Così la vita inizia e finisce movendosi all’interno della continua relazione «dentro-fuori» di cui la respirazione è costituita. Il corpo si apre nell’inspirazione, i polmoni si dilatano, i muscoli si allungano, la pelle si distende per permettere all’aria di entrare, per accoglierla dentro di noi, lasciarla uscire poi modificata e attendere nella pausa che un nuovo inspiro nasca. C’è un movimento interno artefice di questo scambio che non è circoscritto nei polmoni, ma è molto più vasto, determinato dalla condizione corporea più generale, dal meccanismo d’innervazione reciproca dei muscoli inspiratori ed espiratori e dal rapporto tra tensioni e distensioni interne che permette a spazi toracici, addominali o pelvici di partecipare o meno al respiro. Il movimento del respiro nelle sue tre fasi, inspiro-espiro-pausa, coinvolge dunque tutto il corpo in una relazione continua con l’esterno, scandita da un ritmo suo proprio e dotata d’una qualità di movimento che rispecchia ritmo e qualità costitutivi della persona. Secondo Eigen l’io usa la sua esperienza del respiro come un ponte per muoversi con sicurezza dentro e fuori dal corpo. Nel fare ciò rafforza sia la capacità di osservazione che la sua ricettività nel percepire la vitalità del corpo. Il tempo è scandito dal ritmo, inteso qui non solo come forma del movimento che continuamente si ripete, ma anche come pulsazione, o meglio pulsione, rilancio verso il proseguimento, verso il nascere di un nuovo respiro.
Questa dimensione ritmica del respiro ci apre all’esperienza del suono e della voce. Tratteremo più estesamente in seguito l’esperienza culturale del canto e della musica. Ci limitiamo ancora una volta a segnalare il profondo legame tra biologia del corpo e capacità simbolica dell’uomo. In fondo il respiro ha un suo suono, quello del soffio, di uno sbadiglio o di un respiro affannato, i quali altro non sono che gli spazi e le cavità respiratorie entrate in vibrazione, in risonanza, anche in questo caso in un movimento continuo «dentro-fuori». Cantare è vibrare dentro di sé e fuori da sé. Il corpo sonoro, infatti, non è una pura emissione di un suono, ma il trasformarsi del corpo in vibrazioni le quali, tendendolo e distendendolo, lo pongono allo stesso tempo in relazione a sé e lo mettono fuori di sé.
In questo senso il respiro e il suono hanno la stessa corporeità, ma il suono ha un inizio e una fine, una durata nel tempo costitutiva della sua propria forma, e un colore, o più propriamente un timbro, che ne esprime il contenuto affettivo. Fare esperienza di un suono proveniente dal proprio corpo significa fare esperienza di uno spazio che vibra in un tempo preciso, che può finire e può ricominciare, offrendoci l’esperienza della continuità e della separazione, della fine ed eventualmente di un nuovo inizio. Se l’ascolto del respiro ci mette in contatto con un movimento continuo, il suono introduce invece l’elemento della separatezza tra chi ascolta e chi è ascoltato, all’interno di un risuonare reciproco, perché l’ascolto stesso è possibile attraverso un risuonare, e il suono dell’altro risuona dentro di me, modificando anche il mio corpo, facendolo vibrare. È questa modificazione che permette di essere raggiunti dal contenuto affettivo di quel suono, che lascia traccia nel corpo e nelle emozioni di chi ascolta. Ne facciamo ogni volta esperienza quando ascoltiamo una musica che ci incanta, certamente per la sua architettura, ma, forse soprattutto, per quello che muove dentro di noi, per quello che le vibrazioni sapientemente portate e ordinate dal testo musicale ci fanno provare sul piano emotivo, per quello che dicono di noi. Il sentire, secondo J.L. Nancy, è sempre un ri-sentire, cioè un sentirsi-sentire: o meglio, se si preferisce, il sentire o è soggetto o non sente. La matericità della voce è dunque nella carnalità del respiro, nella presenza della bocca e dell’addome, nella forza dei piedi e nell’articolazione della lingua, capaci di esprimere «la patina delle consonanti e la voluttuosità delle vocali» per usare l’espressione suggestiva di R. Barthes. In questa matericità rintracciamo dunque anche la sua forza eversiva di separare e di distinguere, il suo potere evocativo, che si fonda sul rapporto stretto tra voce ed emozioni e il suo potenziale ordinatore espresso dal ritmo, senza il quale nessuna successione di parole o di suoni avrebbe un senso.
La voce è eco di altro. Si potrebbe dire con Nancy che ascoltare è essere tesi verso un senso possibile, e dunque non immediatamente accessibile. La voce, qualsiasi cosa dica, comunica innanzitutto l’unicità di chi la emette e l’unicità della relazione che si manifesta acusticamente nel continuo e reciproco risuonare dei due interlocutori senza dover fare i conti con il detto, ma mettendo in primo piano la loro soggettività prima del contenuto semantico, o meglio ancora lasciando che il semantico prenda forma in quello spazio dove ha luogo il continuo risuonare di entrambi. «Le mie parole sono “vive” perché sembrano non lasciarmi: non cadere fuori di me, fuori dal mio respiro in un allontanamento visibile»16.
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Edmond OUEDRAOGO il 8 luglio 2020 alle 16:38 ha scritto:
L'affermazione di partenza, ma anche di arrivo di questo libro è: "Dire vita è dire ritmo". Ne facciamo sempre l'esperienza nello scorrere del sangue scandito dal battito cardiaco, nel naturale volteggiare delle nuvole, dei venti o delle onde, senza dimenticarsi lo stesso movimento delle galassie con cui viene declinato il tempo in giorni e notti, mesi, anni e stagioni. Quella del Tagliaferi è una padronnanza degli strumenti epistemologici riguardanti particolarmente l'antropologia del rito.