Una chiara e piacevole lectio divina popolare dedicata alla seconda parte del Vangelo di Giovanni, nel segno dell'amore di Cristo che è amore fino all'estremo, capace di vincere la morte.
INTRODUZIONE
Garanzia della gioia è la scoperta e l’accettazione della povertà autentica. Inviterò anche a non fermarsi a questa fase. Il passo successivo deve portare a trasformare la povertà in una forza che trasfigura tutto, nel dinamismo della riscoperta di ciò che è importante e dell’arricchimento corretto. Questo genere di felicità impone di distaccarsi dalle cose, di rinunciare a riporre nella materialità i propri ideali e il proprio futuro. Al massimo gli oggetti possono essere d’aiuto nella via verso la felicità, ma non possono essere identificati con essa. Quanto più l’uomo scoprirà la sua natura povera, tanto più potrà diventare ricco.
È in questo contesto che bisogna leggere anche le parole dell’apostolo Paolo, che scriveva: «Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). In prima istanza Paolo intende il tesoro della fede, ma la felicità, la gioia, la serenità, l’ottimismo, la pace interiore, l’armonia e la concordia con gli altri, non sono forse anch’essi un tesoro prezioso e non scaturiscono dalla fede? Molti ritengono che gli oggetti o i beni materiali accumulati con grande fatica siano in grado di assicurare la felicità, mentre essi sono come «vasi di creta» che si rompono facilmente. Queste persone dimenticano che la vera ricchezza dell’uomo è costituita paradossalmente dalla sua povertà, che gli dà la forza di crescere continuamente, di risollevarsi dalle cadute e di andare avanti, di essere libero e di non soggiacere alle forme di asservimento imposte, fra l’altro, anche dagli oggetti. Alla fine la povertà conduce e fa appello alla scoperta di ciò che nella vita è più essenziale e importante. È, per così dire, lo scopo del pellegrinaggio terreno. In relazione a quanto detto in precedenza, cito le parole del professor Stanisaw Rodzin´ski, già rettore dell’Accademia di Belle Arti di Cracovia:
Bisogna essere consapevoli che quasi sempre nella storia dell’arte l’impiego di mezzi poveri, la sintesi e la semplicità sono cose a cui l’artista giunge attraverso un processo. È pertanto una questione d’esperienza, di un’esperienza di due tipi: l’esperienza interiore, che determina il pensare e il sentire dell’artista, e l’esperienza artistica, che si esprime nel processo che porta a raggiungere la maestria della realizzazione artistica3.
Nella crisi materiale che sperimentano molte persone, un viaggio nel mondo della povertà sembra particolarmente attuale e prezioso. È infatti un viaggio alle fonti della dignità dell’uomo, che non può e non deve essere minata dalla miseria materiale, dalla scarsità di mezzi o da altre limitazioni all’espressione umana. La storia insegna infatti che ci sono stati molti poveri con un cuore nobilissimo, una grande sensibilità d’animo, uno spirito eccezionalmente forte, e ricchi di amore.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
Dai segni dell’Amore all’Amore estremo
Dopo il grande «segno» della risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44), siamo introdotti con drammatico crescendo nel cuore del mistero, nella pasqua del Signore. Mentre avanza spietato l’impero delle tenebre e nei palazzi del potere sacerdotale si decreta la morte del Cristo (11,45-53), l’Amore irradia la sua calda luce, sprigiona tutta la sua fragranza.
La passione, assieme all’incarnazione, costituisce il cuore della teologia giovannea perché la gloria del Verbo incarnato rifulge in modo eminente sulla croce, dove il Figlio dell’uomo è «innalzato». Tutto il Vangelo è teso a questo vertice di gloria. Giovanni sviluppa il tema dell’innalzamento attraverso il doppio senso del verbo utilizzato, che significa «salire al trono» (innalzato come re), ma anche «essere appeso» (innalzato sul legno della croce).
L’espressione ritorna tre volte nel Vangelo, sempre sulla bocca di Gesù: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (3,14); «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io sono» (8,28); «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). L’attrazione universale del Cristo che regna dalla croce è l’irresistibile forza dell’amore che tutto si dona, che ama sempre e comunque, fino alla fine, fino all’eccesso.
Dal convito di Betania all’ultima cena
Nella casa degli amici di Betania, sei giorni prima della Pasqua, ha luogo un banchetto in onore del Maestro (12,1-8). Lazzaro siede tra i commensali, segno luminoso della vita risorta. Marta, la signora di casa, incarna una dimensione costitutiva dell’essere discepolo, la diakonía. È colei che «serve», esattamente come il Signore che è venuto per «servire» (Mc 10,45). Ma il tocco originale in quel banchetto è dato da Maria, la sorella di Lazzaro e di Marta, che compie un gesto d’amore quanto mai simbolico cospargendo i piedi del Maestro di preziosissimo profumo (12,3). Giuda grida allo spreco, la sua logica è diametralmente opposta a quella di Maria. Gesù invece apprezza tantissimo il gesto della sua discepola e gli conferisce un significato cristologico in rapporto alla propria sepoltura, e implicitamente alla sua risurrezione, perché la fragranza di quel profumo riempie tutta la «casa» simbolo della Chiesa. Egli stesso, durante l’ultima cena, farà proprio il gesto di Maria mettendosi ai piedi dei suoi discepoli per lavarli e profumarli col suo amore.
L’ultimo discorso pubblico Gesù lo tiene di fronte ai greci (12,20), nome che qui designa i gentili, cioè i pagani. Si tratta probabilmente di pagani simpatizzanti del giudaismo, forse dei proseliti, se erano saliti a Gerusalemme in occasione della Pasqua. In ogni caso, l’evangelista attribuisce grande importanza all’incontro di questi greci con Filippo, al loro desiderio di vedere Gesù (12,21). Essi costituiscono un preludio di ciò che dichiara il Maestro: «Attirerò tutti a me» (12,32). In effetti, la risposta di Gesù suona misteriosa. Non sembra rivolgersi direttamente agli interlocutori, abbraccia un orizzonte più ampio. Gesù parla di sé, di ciò che lo attende, del suo destino di morte e di gloria. Parla per immagini, attraverso la metafora del chicco di grano che soltanto se muore nel grembo della terra può diventare spiga fiorente, gravida di vita (12,24).
L’angoscia di Gesù di fronte alla morte che i Vangeli sinottici ambientano al Getsemani, Giovanni l’anticipa in questa scena che diventa occasione di una teofania. A Gesù che esprime il suo intimo turbamento («Adesso l’anima mia è turbata... »), risponde una voce che scende dal cielo che contiene una ferma promessa: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (12,27-28). Appare qui il tema caratteristico della teologia giovannea: la gloria del Figlio, il Verbo incarnato, risplende nel suo innalzamento sulla croce da dove attirerà tutti a sé (12,32).
Avendo amato, amò fino al compimento
Nel primo versetto del capitolo 13 Giovanni prospetta tutta la seconda parte del Vangelo in chiave pasquale; «l’ora» di Gesù è descritta infatti come passaggio (= Pasqua) da questo mondo al Padre. Per indicare l’amore con il quale Gesù vive la sua «ora», il nostro evangelista utilizza un’espressione ambivalente (eis télos, 13,1), che può avere un significato temporale («fino alla fine della sua vita») oppure qualitativo («fino all’estremo delle sue possibilità», «fino al compimento»).
Giovanni, com’è noto, non racconta l’istituzione dell’eucaristia, ma ne rivela il profondo significato attraverso la lavanda dei piedi (13,2-20). Durante la cena il Maestro si alza da tavola, depone le vesti, si cinge di un asciugatoio, versa dell’acqua nel catino e comincia a lavare i piedi dei suoi discepoli. Una fitta sequenza di azioni nel più assoluto silenzio. Le parole vengono dopo, in seconda battuta: da parte di Pietro come difficoltà ad accogliere un amore così umile e sconvolgente, da parte di Gesù come parola mistagogica che spiega il senso del gesto soltanto dopo averlo compiuto. Il Signore e Maestro lava i piedi, si fa schiavo. Prima di parlare e di insegnare egli fa. Perciò può dire: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (13,15).
Il discepolo che poggia il capo sul petto di Gesù (13,23-25) può comprendere più di ogni altro i sentimenti che abitano il suo Maestro. Come Maria di Betania, anche lui è figura agapica, che riflette l’amore immenso con cui è stato amato.
I discorsi dell’ultima cena
La situazione caratterizzata dalla cena e dalla presenza di Gesù con i suoi discepoli in una sala che la tradizione ha chiamato «cenacolo», si estende fino alla grande preghiera del capitolo 17. Soltanto all’inizio del capitolo 18 la scena cambia: Gesù e i suoi discepoli escono infatti dal cenacolo e vanno nel giardino al di là del Cedron (18,1).
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Geom. Alessandro Camillo il 7 maggio 2014 alle 09:32 ha scritto:
Bellissimo libro, devo ancora leggerlo ma ho fatto una veloce panoramica fermandomi su qualche paragrafo che mi interessava perché parlava del vangelo della domenica e me ne sono subito innamorato tanto da ordinare subito il volume 1 (capitoli 1-11).
Ing. Lorenzo Benvenuti il 15 aprile 2015 alle 00:23 ha scritto:
Libro molto bello e ben strutturato. I commenti alle pagine di Giovanni uniscono l'interpretazione esegetica, dove non mancano riferimenti linguistici precisi al testo greco originale, per una comprensione più profonda, all'attualizzazione per il fedele di oggi. Il testo aiuta veramente il lettore a rendere viva, oggi, la Parola di Dio, il Verbo eterno del Padre.