Quella del viaggio, delle migrazioni e della strada è una delle inquadrature preferite per narrare la vita nella sua complessità e dinamicità. Il viaggio rappresenta un autentico momento di verità nel quale camminare è un esercizio che ha se stessi come obiettivo e tappa spostata sempre un po’ più avanti, e nel quale il ritorno a casa, in realtà, è sempre tornare in un altrove. La biblista Elena Bosetti racconta le ragioni per le quali il cristiano percepisce se stesso come «straniero e pellegrino» in questo mondo, mentre Cesare Poppi – con lo sguardo dell’antropologo – traccia una storia dell’umano camminare, per evidenziare come i diversi modi di farlo abbiano segnato i passaggi chiave della costituzione del sé individuale e della modernità, fino alla sua crisi.
AUTORE
ELENA BOSETTI, suora di Gesù Buon Pastore, dottore in teologia biblica, dal 1980 al 2010 ha insegnato presso la Pontificia Università Gregoriana. Attualmente è docente al Claretianum (Roma) e all’ISSR «C. Ferrini» (Modena). Si dedica alla pastorale biblica e al ministero della Parola. Tra le sue pubblicazioni per le Edizioni Messaggero segnaliamo: Prima lettera di Pietro (2010); Vangelo secondo Giovanni (Capitoli 1-11). I segni dell'amore (2013); Vangelo secondo Giovanni (Capitoli 12-21). Amore fino all’estremo (2014). CESARE POPPI è nato nel 1953 a Bologna, dove si è laureato in filosofia per poi conseguire un dottorato di ricerca in antropologia sociale a Cambridge, nel Regno Unito. Dal 1974 conduce ricerche fra i ladini di Fassa. Dal 1985 lavora sulle società segrete delle maschere fra le popolazioni di lingua Gur-Grushi del Ghana nordoccidentale. Curriculum e pubblicazioni consultabili su academia.edu.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
«La via più noiosa tra due punti è una linea retta», recitava lo slogan, azzeccato, di una vecchia pubblicità. Che probabilmente calza a pennello, è proprio il caso di dire, alla suggestiva e antica immagine della vita come un lungo cammino, e dell’uomo come homo viator, «camminante».
Sembra proprio, infatti, che quella del viaggio, delle migrazioni e della strada (on the road ), sia una delle inquadrature preferite per narrare della vita, quella almeno che meglio ne dice tutta la complessità e dinamicità. E la definizione di uomo quale viaggiatore e nomade è quella che, trasversalmente una volta tanto, dall’antropologia all’etnologia passando per sociologia e storiografia, mitologia e letteratura, trova d’accordo tutti gli studiosi.
Persino nei nostri modi di dire ciò è evidente: al momento della nascita affermiamo che il cammino è appena iniziato, tanto quanto, al momento della morte, che la strada è giunta al termine. Del resto, tra l’una e l’altra, nostro scopo più o meno recondito è «farci strada nella vita». Davvero il camminare incarna la nostra educazione, ne sottolinea fatiche e tappe, metodologia e stili, e definisce la nostra esperienza esistenziale. Se non altro perché l’immobilità rappresenta inesorabilmente la fine dell’una e dell’altra, per quel che umanamente se ne può dire.
Almeno da quando ha potuto «specializzare» un paio di arti per afferrare oggetti e un altro paio per camminare, correre, marciare o scalare, l’uomo ha sin dall’inizio percorso migliaia di chilometri: per inseguire la selvaggina o ritagliarsi uno spazio tutto per sé sotto il cielo, in cerca di terre migliori o solo per il gusto di scoprire nuovi orizzonti e panorami. «Con i piedi», checché se ne dica a proposito di un certo qual modo di ragionare, abbiamo in realtà agguantato importanti risultati evolutivi: danziamo, corriamo, passeggiamo con la nostra fidanzata e, avendo le mani libere, la possiamo persino abbracciare, fuggiamo, ci alziamo in piedi, un tempo pigiavamo il vino… Possiamo andare verso l’altro, magari per tendergli una mano. Tutto grazie ai nostri piedi!
Se è vero che veniamo tutti da un «Adamo» e una «Eva» che abitavano un luogo compreso tra Kenya, Tanzania ed Etiopia, 150.000 anni fa, è proprio il caso di dire che ne abbiamo fatta di strada da allora! Anche la storia successiva dell’umanità potrebbe essere letta – e, a pensarci bene, così l’abbiamo imparata a scuola – come storia di popoli che vagavano qua e là per l’orbe allora conosciuto, di avventurieri che cercavano «passaggi a nord-ovest», di migrazioni per i più svariati motivi (fame, guerre, catastrofi naturali, semplice «coazione a muoversi»).
E il boom (e anche un po’ di salutare crisi energetica…), ancora tutto laico, di trekking, turismo alternativo, camminate e affini, la dice lunga sulla ribellione alla velocità, alla produttività e alla sedentarietà, che caratterizza questi nostri ultimi tempi. Ribellione alla mancanza di «incroci umani», di relazioni autentiche e profonde, di cammini reciproci l’uno verso l’altro? Di ignoranza sui percorsi che conducano al proprio e altrui cuore?
Che, come Ulisse, uno si sia messo in viaggio per tornare a casa, o come Abramo verso una meta sconosciuta e solo promessa, o come i pilgrim fathers in cerca di un nuovo mondo dove vivere, o come il turista per collezionare esotiche esperienze full optional, o come il vagabondo zigzagando a caso lungo le strade tra un bidone della spazzatura e l’altro, o come l’extracomunitario morto di fame e di paura, o come Emilio Salgari che solcò in lungo e largo i mari di Sandokan e dei pirati della Malesia senza mai essersi spostato dalla sua stanza, o come Achille, piè veloce, verso la battaglia, o come il pensionato che fa due passi nel parco per far passare il tempo; be’, sembra proprio inevitabile che ogni uomo e ciascuno di noi debba prima o poi prendere posizione e provare a dare la sua personale risposta all’unica e condivisa domanda che aspetta tutti al varco. Quella che il protagonista del romanzo di Jack Kerouac, On the road, si sente rivolgere a un certo punto delle sue peregrinazioni americane: «Voi ragazzi andate da qualche parte o soltanto dove capita?». E il commento del protagonista non potrebbe essere più chiaro: «Non capimmo la domanda, ed era una domanda maledettamente buona».
Le parole sono importanti. E se pensiamo al termine «errare», che ha a che fare contemporaneamente sia con l’andare a zonzo che, sorprendentemente, con lo «sbagliare», con l’errore, e ai vocaboli inglese e francese, imparentati tra loro, travel (viaggio) e travail (travaglio, lavoro fisico e mentale) ci rendiamo conto che faccenda maledettamente seria sia quella del nostro «camminare»!
L’umanità, ha detto una volta qualcuno, è una «confraternita di camminanti» e la sua identità profonda si definisce più dagli «incroci» di strade e dalla sovrapposizione di percorsi e successivi bivi e ulteriori percorsi in attesa dei prossimi bivi, che dalle linee parallele che pur all’infinito non si incontreranno mai. Anche il panorama moderno, seppur abbastanza squallido per certi versi, delle nostre periferie urbane, è significativamente segnato e disegnato da cavalcavia, tangenziali, superstrade, semafori, luoghi, ancora una volta probabilmente moralmente discutibili ma pullulanti a loro modo di vita e di furtivi «incontri».
Ma se l’uomo ha già bisogno di viaggiare in quanto uomo, tanto più, a quanto pare, ne ha bisogno in quanto uomo religioso. Lì dove il «viaggio» si confonde tra il pellegrinaggio a qualche luogo santo (Santiago di Compostella, la Terra Santa, la Mecca, il santuarietto di campagna, ecc.) e quell’itinerario tutto interiore che l’uomo di fede è chiamato a percorrere dentro di sé (l’Itinerarium mentis in Deum di san Bonaventura piuttosto che la Salita al monte Carmelo di san Giovanni della Croce, i Racconti del pellegrino russo invece che la Saga di Gilgameš o la Divina Commedia dantesca). Anche i pellegrinaggi ai luoghi santi sono tornati di moda (non c’è agenzia turistica che non li proponga).
Non si scappa proprio. La Bibbia, sin dai suoi primi libri, narra che è proprio lì, lungo la strada, in cammino, che i due partner dell’Alleanza, Dio e il popolo eletto, imparano a conoscersi, camminando fianco a fianco o, il più delle volte, uno dei due davanti a dare il ritmo e la direzione, l’altro dietro ad arrancare pieno di dubbi e tradimenti. Dandosi anche l’eventualità, davvero affascinante oltre che comoda, che uno dei due, lo stesso di cui prima, si prenda in braccio l’altro durante il percorso, come una mamma fa con il proprio bambino. E davvero non si diede mai camminare più bello e affascinante di questo!
Non per niente, ancora, i cristiani sono dapprincipio conosciuti come «quelli della via» (tês hodoû, in greco). «Pellegrini e forestieri» secondo san Pietro. Di loro dice san Ignazio di Antiochia che sono «compagni di viaggio», probabilmente memore di quel misterioso compagno di viaggio che si accostò ai due pellegrini stanchi e delusi che si dirigevano verso Emmaus. Ma entusiasti e di corsa e comunque ancora e ancora una volta per strada, ritornando verso Gerusalemme.
Come l’aveva imparata bene questa «lezione stradale» Francesco d’Assisi e il suo famoso cavallo che in via, lungo la via, cerca assiduamente Dio e i fratelli!
Anche oggi ci capita continuamente di toccare con mano come il viaggio, o come altro lo si voglia chiamare, rappresenta un autentico momento di verità nel quale camminare è un esercizio che ha se stessi come obiettivo e tappa sempre spostata un po’ più avanti. E nel quale il ritorno a casa, in realtà, è sempre tornare in un altrove.
Prima che il «teletrasportatore spaziale» vanifichi ogni altro camminare…