Uno studio approfondito e ricco di contributi intorno alla natura liminale del rito. L'accesso a ciò che trascende l'umano si configura come «modalità liminale» di organizzare la vita stessa, e il rito costituisce in tal senso una privilegiata soglia di passaggio.
INTRODUZIONE
di Giorgio Bonaccorso
I pochi minuti che bastano per descrivere il nucleo dell’annuncio cristiano non bastano per entrare nell’esperienza su cui si fonda quell’annuncio. Non basta soprattutto il percorso lineare con cui spesso si parla di Cristo, della sua vicenda storica, della sua predicazione. L’annuncio e la catechesi sono indubbiamente componenti importanti della fede ma non sono ancora «segno» di ciò in cui si crede se non prendono le mosse dall’impossibilità di dire Dio come si dice il mondo, la storia, l’uomo. E se per dire Dio occorre comunque affidarsi ai linguaggi del mondo, della storia, dell’uomo, questi linguaggi devono essere segnati dalla consapevolezza dei loro limiti, dall’interruzione del loro uso comune, dall’esibizione della loro impotenza semantica. Allo stesso modo i comportamenti e le azioni che in un modo o nell’altro si aprono al mistero divino lo possono fare solo proponendosi come interruzioni delle prassi ordinarie con le quali l’uomo vive quotidianamente. Insomma, se la fede è la fede nel mistero non è esperienza autentica finché non si incontra il limite del discorso come di qualsiasi altra forma espressiva e di qualsiasi azione. La semplice concatenazione degli eventi narrati in un discorso lineare senza interruzioni non annuncia più Dio e se lo annuncia lo traccia come elemento da sommare agli altri, ossia lo nega per quello che è veramente. L’esperienza di fede come l’esperienza religiosa di tanti popoli avverte il rischio di questo processo di normalizzazione, e procede all’elaborazione di percorsi che impediscano di sciogliere il mistero in una omogeneità incapace di percepire la differenza di Dio. Se ora qualcuno si chiede a quali percorsi ci si vuole riferire, un tentativo di risposta si trova nelle pagine di questo libro i cui contributi girano intorno al fenomeno religioso e rituale, cristiano e liturgico, della liminalità.
In termini puramente orientativi si può osservare che la liminalità può venire indagata a diversi livelli dell’esperienza umana: è anzitutto un modo di vivere e di comprendere la realtà, che implica la dissoluzione del continuum nella consapevolezza che l’esistenza è caratterizzata da processi discrezionali e differenziali; in secondo luogo la liminalità assume le nozioni di confine, di interruzione e di passaggio, in relazione all’esperienza religiosa che in un modo o nell’altro tende a un secondo livello della realtà; ma soprattutto la liminalità è un aspetto costitutivo del rito che, più di qualunque altra azione, istaura una prassi caratterizzata dalla rottura di livello. La congenialità tra esperienza religiosa e azione rituale è evidente proprio grazie alla liminalità. E sono i contesti religiosi e le prassi rituali che vengono affrontati negli interventi presenti in questo libro. Nella prima parte ci si confronta con indagini antropologiche e fenomenologiche che consentano di individuare gli aspetti più generali della liminalità religiosa e rituale. Negli interventi della seconda parte l’attenzione viene rivolta alla tradizione cristiana partendo da alcuni aspetti biblici e procedendo tanto verso un fenomeno particolarmente rilevante come quello dell’iniziazione quanto verso una riflessione teologica più generale. Poiché il principale interesse è rivolto al rito, è quanto mai importante verificare il tema della liminalità relativamente ad alcuni linguaggi della liturgia: gli interventi della terza parte tentano questa strada approfondendo i temi concernenti lo spazio e la musica. La valenza universale della liminalità rituale porta anche a interrogarsi sul ruolo che essa può svolgere nelle relazioni tra il cristianesimo e altre religioni, ossia nell’ambito di quell’aspetto importante della missione ecclesiale che è l’inculturazione.
La prima parte del volume, come si è detto, considera la liminalità, intesa anzitutto come soglia e interruzione, alla luce del suo statuto antropologico di tipo religioso e rituale. L’intervento di A.N. Terrin si mantiene entro il vasto orizzonte delle religioni tentando di qualificare la liminalità e la marginalità non come semplici componenti del sacro ma come istitutivi del sacro. La religione è lo sconfinamento rispetto a questo mondo e a questa storia. Il limen è la soglia della casa e comunque la divisione tra spazi, ma anche la soglia di una nuova epoca e quindi la divisione tra tempi. In tale divisione si rende possibile, tanto sotto il profilo dello spazio quanto sotto il profilo del tempo, l’esperienza che è alla base delle religioni. Il luogo originario della liminalità come sostanza delle religioni sembra essere il rito, ma la liminalità stessa sembra sconfinare rispetto al rito e riprodursi come marginalità che destruttura sistematicamente e in modo stabile i comportamenti sociali e i modi di pensare. Il rito è una liminalità dinamica dato che all’uscita dal contesto socio-culturale fa seguire il rientro in tale contesto. Le religioni si avvalgono di questa dinamica, ma possono anche elaborare una liminalità stabile, una marginalità senza ritorno, come si può riconoscere in quei gruppi sociali che si istituiscono proprio come gruppi ai margini della vita sociale. Ciò che accomuna tutti questi fenomeni è però la nostalgia dell’eccedenza rispetto al già dato e al già consumato. La liminalità e la marginalità conservano la nostalgia dell’eccedenza e con ciò stesso configurano la possibilità dell’esperienza religiosa. Indubbiamente, le religioni possono istituzionalizzarsi al punto da esautorare la differenza rispetto alle strutture sociali e ideologiche, possono cioè tendere a eliminare la liminalità e la marginalità, ma così facendo si avviano verso l’autoeliminazione.
Lo stretto legame tra liminalità e religione non deve trascurare che il luogo principale di entrambe è il rito. Per questo motivo è opportuno l’intervento di R. Tagliaferri che si muove tra la natura rituale della liminalità e la natura liminale del rito. I riti religiosi non pretendono necessariamente che chi vi partecipa diventi stabilmente marginale ma che faccia un’esperienza significativa del sacro. A ben vedere, infatti, gli innumerevoli dispositivi con i quali durante i riti si gestiscono i linguaggi e le azioni, sollevandoli dal loro uso ordinario per scuotere la sensibilità, consentono agli esseri umani di accedere al sacro in modo esperienziale. Vi possono essere anche altre forme di interruzione della quotidianità, com’è facilmente riscontrabile in tanti tipi di svago che riducono il liminale al liminoide. Esse però non conservano la stessa forza dei riti religiosi, ossia non sono in grado di realizzare una performance che attraverso i dispositivi liminali sia in grado di orientare la vita e comunque di inserire nel sacro. Nei riti vi è infatti un delicato equilibrio, difficilmente riproducibile altrove, tra il disordine che devono produrre per fare accedere a un altro livello della realtà, ossia al sacro, e l’ordine a cui tale processo di disordine viene ricondotto per consentire una condivisione di esperienze ripetibili nel tempo. Rivolgendosi alla tradizione cristiana resta da chiedersi se questo delicato equilibrio che caratterizza la liminalità rituale sia stato mantenuto. La risposta porta inevitabilmente a riconoscere una certa ambiguità: per un verso la prassi ecclesiale (come nel caso della festività domenicale, dell’iniziazione cristiana, dei percorsi penitenziali) è ricca di testimonianze significative della liminalità rituale, ma per altri gli interventi magisteriali insistono su una prospettiva dottrinaria e morale poco incline ai temi tipicamente liminali dell’interruzione e della trasgressione.
Le questioni sollevate sulla liminalità (a volte mancata) delle religioni e dei riti, del cristianesimo e della liturgia, assumono una particolare rilevanza anche in ordine ai criteri di aggregazione sociale e alla loro connessione con i criteri di riconoscimento del sacro. A. Destro punta l’attenzione su questi problemi osservando come il legame tra il sacro e il sociale è un’acquisizione classica delle ricerche antropologiche e implica, in primo luogo, la questione dell’aggregazione, ossia del modo con cui una comunità opera unitariamente e si autoidentifica. Sembra difficilmente contestabile che un’aggregazione comunitaria implichi un qualche processo di differenziazione tra ciò che è più comune e ciò che per il suo alto valore consente di realizzare l’unità e l’identità del gruppo. La differenza tra sacro e profano muove anche da questa esigenza sociale. Il modo, poi, con cui si opera la differenziazione e sacralizzazione di oggetti, spazi, persone, riporta ai dispositivi rituali della liminalità che «hanno un’altissima incidenza sulla capacità interpretativa ed emozionale dell’individuo». Ancora una volta è inevitabile il confronto tra la marginalità, che è sostanzialmente la negazione di ciò che è più appetibile in un contesto sociale ordinario, e la liminalità che è un processo di trasformazione per conseguire una condizione più perfetta. Gesù è stato indubbiamente una persona che ha vissuto una condizione di marginalità, ma allo stesso tempo ha introdotto i discepoli in percorsi rituali di tipo liminale.
La seconda parte del volume concentra l’attenzione sulla tradizione cristiana, dai fondamenti biblici ai suoi sviluppi storici. La chiesa delle origini, afferma R. Penna, è caratterizzata dalla liminalità dato che l’accettazione del messaggio di Gesù la mette inevitabilmente ai margini delle istituzioni politiche e religiose con le quali viene in contatto. Per le chiese paoline si può parlare di liminalità sia rispetto alla sinagoga sia rispetto al paganesimo, come emerge anche dal fatto che l’ambiente tipico del loro riunirsi è la casa e non il luogo cultuale ufficiale. Inoltre, lo svolgimento delle riunioni dei cristiani assomiglia più a quello dei gruppi filosofici che a quello dei gruppi religiosi. Sembra, cioè, potersi affermare che la comunità cristiana antica sia caratterizzata, come tutte le comunità religiose, dalla liminalità, ma che tale liminalità consista nel differenziarsi dalle comunità religiose ed essere più prossima ai gruppi filosofici. Nelle riunioni dei cristiani sono riconoscibili componenti tipicamente cultuali e rituali concentrati intorno al pasto e alla parola, ma la liminalità è riconoscibile soprattutto nello stile di vita improntato alla fede in Cristo e marcatamente differenziato rispetto ai comportamenti degli altri gruppi umani. Rimarrebbe da chiedersi se in ciò non sia da scorgere una forma di marginalità piuttosto che una vera e propria liminalità, dato che la chiesa primitiva avrebbe abbracciato uno stato di vita duraturo decisamente diverso da quello della società in cui viveva.
L’osservazione che a questo punto è opportuno fare è che se la liminalità della chiesa primitiva sembra improntata soprattutto a una marginalità nello stile di vita, il fenomeno dell’iniziazione cristiana riporta l’attenzione sulla liminalità rituale. Come osserva G. Laiti, il cammino proposto a chi vuole entrare nella chiesa è caratterizzato da quella condizione provvisoria e di soglia che è tipica dei riti religiosi. Se l’intento dell’iniziazione cristiana è quello di favorire la conversione a Cristo e alle esigenze che scaturiscono dalla fede in lui, il modo adottato per realizzare tale intento è un insieme di passaggi che implica l’interruzione rispetto alla semplice vita quotidiana: «il divenire cristiani espone a una “soglia di rottura” evidenziata dalla distanza tra il “prima” e il “poi”». L’esito di tale cammino è l’illuminazione che consente di accedere alla verità e di realizzare un corretto comportamento morale. La vita della chiesa però, anche quando è illuminata e corretta, rimane provvisoria rispetto al regno di Dio: di conseguenza si deve riconoscere un altro livello di liminalità, e precisamente quello escatologico. La prassi ecclesiale in questo mondo conserva la figura della soglia sia perché interrompe uno stile di vita precristiano sia perché vive nella consapevolezza dello scarto rispetto al regno.
La questione che rimane aperta è la proponibilità dell’iniziazione cristiana nell’attuale contesto storico-culturale. L. Soravito, affrontando tale questione, delinea anzitutto alcune caratteristiche dell’iniziazione e successivamente espone i motivi di inquietudine derivanti dalla scarsa incidenza dei processi formativi che dovrebbero iniziare le persone alla fede. Indubbiamente la cultura contemporanea presenta delle resistenze all’iniziazione ma più spesso è la prassi ecclesiale che risulta troppo ripiegata su atteggiamenti difensivi e incapace di proporre percorsi significativi. L’iniziazione cristiana può non raggiungere i suoi intenti perché si riduce a una catechesi che non coinvolge gli esseri umani in modo personale e comunitario. Sarebbe auspicabile invece un cammino più attento ai dispositivi rituali e quindi un’iniziazione che riscopra nella liturgia un supporto fondamentale. All’interno di tale auspicio emerge anche il valore della liminalità intesa come «esperienza in cui i rapporti spazio/temporali e interpersonali sono vissuti in maniera “altra”, fuori delle regole usuali».
Le acquisizioni biblico-patristiche e le problematiche pastorali costituiscono dei solidi fondamenti e delle evidenti urgenze per ripensare la liminalità in un discorso più globalmente teologico. Ci si può infatti chiedere quale contributo possa fornire il tema della liminalità all’elaborazione della teologia fondamentale e sistematica. Affrontando la questione, G. Mazza sottolinea anzitutto la rilevanza che stanno assumendo o comunque possono assumere gli studi sul rito nell’ambito della ricerca teologica. All’interno di questo atteggiamento meno refrattario al rito rispetto agli studi teologici del passato, un posto centrale assume il tema della liminalità per la sua congenialità con lo statuto stesso della fede. La dimensione antistrutturale della liminalità rituale, infatti, implica quella violazione dell’ordinario che è alla base di una fede fondata sull’eccedenza di Dio rispetto al mondo e all’uomo. Se il rito, grazie alla sua dinamica liminale, dice che la realtà profonda del sacro è indisponibile a ogni tentativo di possesso da parte dell’uomo, la fede cristiana implica ugualmente uno statuto di liminalità perché si configura come apertura a ciò che rimane fondamentalmente indisponibile a ogni pretesa umana di possesso e di piena comprensione. Sotto questo profilo il rito mantiene la fede nella consapevolezza della sua natura più profonda. Rimarrebbe da approfondire la relazione tra la presenza-assenza di Dio, ossia il suo essere prossimo all’uomo (presenza) come mistero di cui l’uomo non può disporre (assenza), e il coinvolgimento-sospensione del rito, ossia il suo ricorrere alla dimensione sensibile dell’uomo per portare l’uomo a superare il mondo della sensibilità.
Con la terza parte del volume ci si impegna a indagare la liminalità nei linguaggi che entrano nella sfera religiosa e rituale, cristiana e liturgica. Si tratta per lo più di linguaggi artistici dato che la stessa nozione di arte implica una qualche forma di liminalità ossia di interruzione, sorpresa, scuotimento. Poiché il limen si riferisce anzitutto allo spazio è quanto mai opportuno confrontarsi anzitutto con i luoghi sacri della tradizione cristiana, con le forme artistiche che li caratterizzano e che li dispongono a diventare espressioni del mistero che in essi vi si celebra. F. Leto si impegna in questa ricerca mostrando le strutture architettoniche che declinano la liminalità rituale. Dopo la presentazione di alcune questioni generali viene proposto un lemmario nel quale sono esposti luoghi e movimenti tipici della liminalità, riconducibili all’interruzione e alla soglia, allo sconcerto e all’orientamento, alla frattura e all’appartenenza. L’esame di luoghi concreti dell’architettura legati alla liturgia è quanto mai prezioso dato che consente di verificare se la liminalità sia non solo una teoria sulla realtà ma anche e soprattutto un’esperienza reale aperta alla trascendenza. La scommessa principale però è se l’architettura sia effettivamente un linguaggio del rito religioso e cristiano, ossia se consenta un’esperienza aperta alla trascendenza proprio in quanto linguaggio del rito. Dall’insieme dell’intervento emerge la convinzione che lo spazio visibile e percorribile in diverse chiese, cappelle e battisteri, sia non solo un’occasione del rito ma un linguaggio così profondamente legato alla liminalità da contribuire a istituire il rito. Ovviamente tutto questo gioca con le immagini che i luoghi esaminati non solo contengono ma realizzano in una plasticità recepibile immediatamente. Si è così già nel sacro prima di dirlo, si è già nel mistero cristiano prima di predicarlo.
L’interrogativo inespresso ma sempre sotteso è se la liminalità dipenda dalle qualità intrinseche dell’arte architettonica o dal suo inserimento nel contesto rituale. Probabilmente la risposta è che la costruzione artistica di uno spazio, proprio per la sua qualità esteticamente liminale, consente di riconoscere in essa una componente quanto mai congeniale per la liminalità esplicitamente religiosa del rito. Ciò sembra quanto mai vero nella relazione tra musica e liturgia, che, come osserva L. Girardi, apre un capitolo quanto mai complesso e dibattuto. La musica produce esperienze profonde che, incidendo sul modo di percepire il tempo, lo spazio e il corpo, segnano una soglia e un passaggio a ciò che è oltre il quotidiano e l’ordinario. Nel rapporto con la liturgia, però, emerge anzitutto l’esigenza che queste potenzialità della musica si coniughino con gli altri linguaggi e le altri arti del rito. La possibilità di distinguere tra musica profana e musica sacra, infatti, non può basarsi su percorsi sonori chiaramente identificabili con una delle due, ma deve affidarsi alla capacità del rito stesso di trasformare la musica in direzione del sacro. Si tratta quindi non tanto di individuare una musica sacra quanto di riconoscere una musica rituale, ossia una musica che possa condividere l’apertura rituale al sacro. Sotto questa prospettiva anche l’improvvisazione musicale, se coerente con il programma della celebrazione liturgica, può realizzare nell’ascoltatore l’esperienza di una soglia, di un salto, di un’interruzione rispetto al previsto.
Le molteplici prospettive con le quali si è affrontato il tema della liminalità del rito possono trovare un punto di verifica in ricerche specifiche rivolte a una determinata cultura. Il contributo di Ch.L. Cakpo (che coincide con un capitolo della sua tesi di licenza) consiste proprio nell’aver approfondito la dimensione liminale dell’iniziazione attraverso il confronto tra la cultura africana e la tradizione cristiana. Torna così il tema già affrontato dell’iniziazione ma sotto la prospettiva dell’inculturazione. Il ruolo della liminalità è decisivo perché consente di realizzare un cammino di conversione al cristianesimo senza disattendere la cultura della società africana. Proprio l’attenzione a tale cultura consente ai membri della società di vivere concretamente i processi rituali di liminalità e quindi di realizzare veramente la conversione. Il circolo appena descritto nasce dal fatto che la liminalità funziona solo se si rimane aderenti alla concretezza della società che l’adotta. D’altra parte se una società adotta la liminalità rituale, e quindi si predispone all’interruzione della vita ordinaria per aprirsi ad altri livelli dell’esperienza, può, sempre attraverso tale dinamica, predisporre i suoi membri ad aprirsi all’esperienza della fede cristiana.
La tesi avvalorata dai diversi interventi è che l’accesso a ciò che, in un modo o nell’altro, trascende l’essere umano, non potendo prescindere dall’uomo e dalla sua vita, si configura come «modalità liminale» di organizzare la vita umana. La soglia e l’interruzione, l’abbandono e il passaggio, sono aperture a ciò che è «al di là» della vita quotidiana costruite con lo stesso materiale della vita quotidiana. Se l’alterità intrinseca alla sfera religiosa e cristiana non rimane un concetto astratto a partire dal quale si pretende di rifiutare questo mondo, ma viene inscritta in percorsi concreti nei quali si gestisce in modo liminale questo mondo, si può e si deve affermare che tutte le forme di contrapposizione si muovono all’interno di un programma simbolico che tiene insieme gli opposti. Ciò, almeno, sembra difficilmente contestabile nel rito che non dice mai nulla dell’altro mondo senza passare per il materiale che costituisce questo mondo. La liminalità rituale è proprio il modo di gestire questo mondo per dire l’altro mondo, con la conseguenza che uno non può sussistere senza l’altro. La liminalità rituale è contrapposizione e composizione, rottura e intreccio, desiderio e nostalgia.
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Prof. Alessio dr. Angelomaria il 24 marzo 2020 alle 09:48 ha scritto:
Ottimo testo. Attualissimo