Questo libro vuole essere una storia della chiesa «in» in Alto Adige, non una storia della chiesa «dell»’Alto Adige. L'Alto Adige/Südtirol è infatti un’area vasta, dall’orografia complessa, abitata da una popolazione linguisticamente composita, ed ha raggiunto l’attuale assetto istituzionale solo in anni recenti. La narrazione della storia ecclesiale di quest’area, che un tempo faceva riferimento a tre diocesi diverse, è dunque inevitabilmente frammentaria. Ma la storia di una chiesa locale è storia di un popolo sulla via della salvezza e indagine su come, in un determinato luogo, sia vissuta nel tempo la comunità dei fedeli in Cristo. Ecco emergere allora la possibilità di individuare caratteri comuni in ordine ai percorsi di evangelizzazione, ai profili dell’organizzazione ecclesiastica, alle espressioni di devozione popolare e alle forme di vita religiosa.
DESTINATARI
Studenti di storia e storia della chiesa.
AUTORE
EMANUELE CURZEL (1967) è ricercatore di storia medioevale presso l'Università di Trento e tiene corsi presso l'Istituto superiore di scienze religiose di Bolzano e la Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica dell'Archivio di stato di Bolzano. Dal 2010 dirige la rivista «Studi Trentini. Storia». Tra le sue recenti pubblicazioni: l'edizione del Codex Wangianus (2007) e della Documentazione dei vescovi di Trento XI secolo-1218 (2011); il volume Trento della collana «Il medioevo nelle città italiane» (2013).
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
1. Come e perché fare storia di una chiesa locale
Non si fa storia di una chiesa locale dimostrando come in un determinato territorio si sia riverberata una qualche «grande storia della grande chiesa», usando una logica deduttiva; e neppure cercando prove della costante fedeltà a una qualche ortodossia o della corrispondenza delle istituzioni presenti in un territorio a una normativa canonica. Si fa storia di una chiesa locale cercando di capire come in un determinato luogo vi sia stata nel tempo la comunità dei fedeli in Cristo, quella che è presente quando due o più sono riuniti nel suo nome. E, soprattutto, quella che si raduna per celebrare la memoria della passione, della morte e della risurrezione di Gesù Cristo sotto la presidenza del vescovo in quanto successore degli apostoli.
Ogni storia della chiesa locale è allora la storia di un popolo sulla via della salvezza, di una «chiesa di Dio che vive in...»; e non di un popolo genericamente inteso, ma di quel determinato popolo, con le sue vicende, le sue gioie, le sue speranze. È certo che vi sono epoche nelle quali è necessario conoscere i quadri generali per poter correttamente interpretare il dato locale; vi sono epoche nelle quali il legame con altre chiese (a cominciare dal legame con quella romana) è talmente forte da influenzare in modo significativo gli avvenimenti. Quindi quelle vicende, quelle gioie e quelle speranze possono essere state le stesse di altre chiese di Dio pellegrine su questa Terra. Ma ciò va dimostrato, e dimostrato sulla base delle fonti, non affermato a priori.
La storia delle chiese locali non è un’invenzione recente. Già nell’alto medioevo vi erano coloro che narravano le vicende dei vescovi, o per lo meno tenevano conto dei loro nomi, convinti del fatto che in questo modo sarebbe stata mantenuta la memoria del legame tra la chiesa del proprio tempo e l’età apostolica. Ma è soprattutto a partire dal XVIII secolo che gli eruditi si sono addentrati nei grandi fondi archivistici delle istituzioni ecclesiastiche: non solo per dimostrare la grande antichità e dignità dell’una o dell’altra sede, ma soprattutto per difenderne i diritti, le prerogative e le tradizioni nei confronti di questa o quella minaccia di natura intellettuale, giuridica o politica.
La chiesa, per quanto presieduta dal vescovo, non si esaurisce però in lui: non basta raccontare la storia dei vescovi per avere la storia della chiesa locale. Soprattutto negli ultimi decenni, grazie anche al rinnovamento ecclesiologico favorito dal concilio Vaticano II, si sono moltiplicate le «storie delle chiese locali», dedicate a una città e al territorio a essa connesso. Queste ricerche hanno anche contribuito ad articolare la storia della (grande) chiesa, prima troppo appiattita sulla storia del papato romano.
Si deve aggiungere che queste «storie» sono state e sono, prima di tutto, storie di città: le chiese locali (almeno nel contesto euro-mediterraneo) sono nate infatti e si sono sviluppate negli spazi urbani e a partire da essi; sul territorio circostante hanno esercitato un influsso e un potere di carattere religioso in qualche misura parallelo all’influsso e al potere realizzati in ambito culturale e civile dai municipia di età romana prima e dai comuni cittadini del pieno medioevo poi. Ed è noto che per l’uomo del medioevo una città, per essere davvero tale, doveva essere anche sede vescovile: secondo il vescovo di Genova Iacopo da Varagine, un agiografo domenicano che scrisse nella seconda metà del XIII secolo, loquendo proprie, civitas non dicitur nisi que episcopali honore decoratur («in senso stretto, non è detta città se non quella che è insignita dell’onore di avere un vescovo»).
2. Come e perché fare la storia di questa chiesa locale
Dalle premesse emergono alcune delle difficoltà incontrate nella realizzazione di questo libro. Non sarà infatti una narrazione relativa alla chiesa esistente in una città e nel territorio a essa annesso; né l’oggetto sarà la comunità cristiana residente in una regione geograficamente o storicamente unitaria. L’area di cui si parlerà, piuttosto vasta (7400 kmq), è invece orograficamente complessa, è abitata da una popolazione linguisticamente composita e ha raggiunto l’assetto istituzionale attuale in anni relativamente vicini a noi'.
Forse fin dai tempi della cristianizzazione, e certamente a partire dall’alto medioevo, la parte settentrionale del bacino del fiume Adige, comprendente il settore montuoso che sta immediatamente a sud del crinale alpino centrale, era infatti affidato alla cura di tre diversi vescovi (gravitanti su tre diverse sedi metropolitiche):
a) a nord-ovest la Venosta, ossia l’ampio solco vallivo che corrisponde al primo tratto della valle dell’Adige, fino al punto in cui quest’ultimo riceve il torrente Passirio (compreso dunque l’abitato di Merano), era la propaggine orientale della grande diocesi di Coira (posta nella provincia ecclesiastica di Magonza);
b) a nord-est la valle dell’Isarco (affluente di sinistra dell’Adige), fino alla stretta di Chiusa, era parte della diocesi di Sabiona (sede trasferita, nel X secolo, nella non lontana Bressanone), facente parte della provincia ecclesiastica di Salisburgo; la maggior parte del territorio sabionese/brissinese stava però più a nord, al di là dello spartiacque (un ampio tratto della valle dell’Inn);
c) un settore centrale – la valle dell’Adige a sud-est di Merano, la valle dell’Isarco a sud-ovest di Chiusa e una parte della val Sarentino a nord di Bolzano – faceva parte della grande diocesi trentina, che dal punto di vista della geografia ecclesiastica era «Italia» in quanto suffraganea del patriarca di Aquileia.
La tripartizione dipendeva da circostanze storiche di non facile definizione, aventi probabilmente a che fare con l’importanza dei vecchi municipia romani e con l’esito delle invasioni barbariche: la presenza franca e bavarese a sud del crinale alpino, nell’alto medioevo, contribuì a formare o a rafforzare i confini che conosciamo. Tale situazione rimase stabile per più di mille anni.
La narrazione della storia della chiesa in Alto Adige/Südtirol, richiesta dall’attuale assetto diocesano, sarà dunque inevitabilmente frammentaria: il tentativo di descrivere caratteri comuni in ordine all’evangelizzazione, ai profili dell’organizzazione ecclesiastica, alle espressioni della devozione, alle forme della vita religiosa dovrà continuamente tener conto del fatto che si trattava di un’area che faceva riferimento a tre diocesi diverse (per di più aventi il loro centro, in due casi, fuori dall’area considerata). Solo in tempi molto più vicini a noi le vicende politico-militari e i successivi adeguamenti dei confini ecclesiastici hanno portato (in modo non indolore) alla situazione che conosciamo:
a) tra 1812 e 1818, durante l’epoca napoleonica prima e la restaurazione asburgica poi, vi furono ben tre mutamenti di confine, al termine dei quali la diocesi di Coira non ebbe più alcun territorio atesino: il tratto della Venosta da Merano a Silandro passò a Trento, il settore più occidentale fu assegnato a Bressanone. Passarono invece dalla diocesi di Bressanone a quella di Trento la parte più a nord della val Sarentino, le valli di Gardena, Funes e Badia e persino il tratto della valle dell’Isarco in cui erano Chiusa e Sabiona; b) dopo la prima guerra mondiale, la parte del Tirolo posto a sud del Brennero passò al regno d’Italia; il territorio nord-tirolese fu allora affidato a un amministratore apostolico e la diocesi di Bressanone vide considerevolmente ridotte le sue dimensioni;
c) nel 1964 nacque una nuova diocesi, Bolzano-Bressanone, frutto dell’unione tra i territori brissinesi e i dieci decanati settentrionali della diocesi trentina; i confini delle due diocesi esistenti nella regione Trentino-Alto Adige furono così fatti coincidere con quelli delle due province di Trento e di Bolzano. Contemporaneamente cessò il compito dell’amministratore apostolico e fu fondata la diocesi di Innsbruck, comprendente quasi tutto il Tirolo austriaco.
Questa sarà dunque in gran parte una storia della chiesa in Alto Adige, non una storia della chiesa dell’Alto Adige; e prego il lettore di voler accogliere l’uso di quest’ultima espressione in senso puramente descrittivo. L’intenzione è infatti quella di designare in questo modo un’area geografica, non un particolare e storicamente determinato assetto politico-istituzionale di essa. Non si può peraltro dimenticare che l’espressione Alto Adige, di ambigue ascendenze napoleoniche, fu introdotta all’inizio del XX secolo da Ettore Tolomei per indicare l’area di lingua tedesca posta a sud del Brennero che si voleva entrasse a far parte dello stato italiano, con la cosciente intenzione di dare a questo territorio un nome diverso da quello che aveva avuto fino ad allora. Peraltro anche il termine Sùdtirol, storicamente ben più significativo, nacque in un preciso momento storico (come vedremo non si parla di «Tirolo» in senso territoriale prima della metà del XIII secolo) e allude a un legame tra i due versanti dell’arco alpino che, se inteso in modo finalistico e a-storico, sarebbe altrettanto scorretto.