Tre racconti, «tracce di vita» all'incrocio tra spiritualità e narrativa, storie accomunate dalla voglia di vivere la vita in tutta la sua profondità e bellezza.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
Nella valle di Erco
Il cielo era plumbeo in quel tardo pomeriggio di un freddo novembre; qualche raggio di sole ogni tanto faceva timidamente capolino tra le nubi grandi e scure, gravide di pioggia, che, portate da un vento gelido, danzavano minacciose nell’aria. Le colline all’intorno sembravano sonnecchiare sotto la pallida luce e, mentre alcune erano prive di vegetazione, coperte semplicemente di un verde e spento manto, altre erano rigogliose di alberi e piante che sfoggiavano una mirifica varietà di colori ora giallo, ora ocra, ora di un intenso marrone: la natura stanca e avvolta dall’abbraccio dell’autunno inoltrato somigliava ad una vecchia donna che, avanti negli anni e piena di rughe, ancora si ostina a indossare vesti variopinte, come per catturare l’ultimo vezzo di una gioventù ormai lontana e perduta.
Ai piedi delle colline, nella vallata di Erco, a tratti lavorata con lunghi solchi diritti e profondi incisi dagli aratri, a volte lasciata come libero pascolo per le numerose greggi, diverse strade sterrate rivestite di bianca ghiaia serpeggiavano allegramente congiungendo borghi e villaggi, seppure erano tante le casupole isolate, sparse qua e là con i loro alti camini che abbondantemente fumavano. Da lontano il monte Lerio, fiero e maestoso come un anziano gentiluomo, sornione, ma vigile, tutto dominava, mentre il fiume Mirta con corso giovane e veloce offriva abbondanti acque che dissetavano uomini, bestie e campi coltivati.
Su una delle stradine che si inerpicava sinuosa ed erta risalendo le pendici della montagna, curvo e dondolante sotto una fascina di legna di castagno si era incamminato Rufino, noto a tutti con il bizzarro diminutivo di Ruffo, che, dopo aver raccolto l’ennesima scorta di rami secchi e piccoli tronchi da ardere, ora che l’inverno era alle porte, faceva ritorno alla sua casa solitaria alle falde del monte, dove da tanti anni aveva trovato rifugio con il desiderio di allontanarsi dagli occhi indiscreti e troppo curiosi degli abitanti del paese di Avenio. Questo era composto da un pugno di case che circondavano il castello, edificato secoli prima dai principi Spinabruna, somiglianti a pulcini spauriti attorno alla chioccia. Nonostante il maniero fosse protetto alle spalle dalla montagna e si ergesse su uno sperone di roccia affacciandosi sulla valle sottostante, offrendo agli occhi di chi guardava un incantevole paesaggio, era disabitato: erano rari infatti i ricordi dei più anziani che avessero visto la nobile famiglia passarvi almeno qualche tempo di villeggiatura. L’edificio, pur bello e a tratti raffinato, con ampi cortili ed eleganti scaloni di pietra, aveva piuttosto l’aspetto di un fortino: in effetti era stato utilizzato più come deposito di armi anziché palazzo dove organizzare feste sontuose e memorabili. Ciò a motivo della sua posizione, perché in tempi meno tranquilli quando la pace non era cosa scontata, avere una dimora che a colpo d’occhio dominasse l’intera vallata di Erco e consentisse di spingere lo sguardo fino all’orizzonte, dove si vedeva scintillare la sterminata distesa del mare, era sicuramente confortante. Difatti un’alta torre grigia coronata da severi merli a coda di rondine, era non solo l’elemento architettonico che conferiva dignità e gravità al maniero, ma anche luogo privilegiato di avvistamento degli eventuali nemici dediti a improvvise e sgraditissime scorribande.
Gli abitanti di Avenio ne avevano un sacro rispetto, perché immagine ancora vivida di un fiero passato e, passando sotto la torre nelle notti di tempesta, qualcuno giurava di aver udito grida di guerra e metallici rumori come di spade sguainate in combattimento.
Ruffo quindi stava tornando a casa in quel freddo pomeriggio autunnale; era comunque un lusso chiamare «casa» quel luogo, che egli stesso aveva risistemato alla meglio anni addietro. Quando vi giunse poco più che ventenne, era un rudere: in piedi rimaneva soltanto un muro, fatto di sassi squadrati e di diversa grandezza. A terra giacevano travi marcite in vari punti e calcinacci mescolati al terriccio e alle foglie putride; non esistevano più né porta e né finestra e il pavimento di mattoni rossi, a tratti ancora integro, era ravvivato da fiorellini gialli e ciocche di erba verdissima, nati spontaneamente facendosi largo tra le fessure divenute piccole voragini. L’unico posto all’apparenza confortevole era la grotta posta sul fondo, che presentava in un punto una rientranza poco sollevata da terra, scavata per servire da giaciglio; se ci si avvicinava erano ancora visibili e ben marcati i colpi di piccone vibrati con precisione. Si diceva in paese che quell’antro fosse stato la dimora di un vecchio eremita oppure di uno stregone o di tutte e due le cose assieme. Nella fantasia popolare infatti esisteva la mitica figura del Bagorul, una sorta di monaco-mago, che con una lunga veste bianca e il cappuccio in testa, si aggirava per boschi in cerca di radici, di cui si nutriva, o di erbe rare che gli servivano per preparare misteriosi infusi. Solitamente errava di notte, perché dalla sua fronte scaturiva un raggio luminoso e accecante, ma in caso di pericolo poteva mostrarsi anche di giorno e il suo arrivo era annunciato da un fortissimo odore di incenso. Molti, quando si trovavano nei paraggi, giravano alla larga, forse con l’oscuro terrore di rimanere vittima di qualche incantesimo. Negli anni vi erano cresciuti intricati e fitti rovi, come un’infinità di piante selvatiche, mentre una quercia enorme sovrastava la grotta, eloquente simbolo di antica forza e perenne stabilità. Ruffo aveva sentito parlare di quel luogo e al contrario di tanti altri vi si era recato di proposito, affascinato e attratto da quell’oasi di solitudine.
Mentre si aggirava fra i ruderi, una calma inspiegabile gli dilatava l’animo; la dimora gli era vagamente familiare, facendolo sentire come un pellegrino che, dopo un estenuante viaggio in paesi sconosciuti e insidiosi, fosse nuovamente approdato in terre accoglienti e amiche, cariche di consolanti ricordi: quella spensieratezza giunta all’improvviso, così disperatamente cercata e adesso ritrovata inaspettatamente, era fresca e reale, profumata dall’ingenuità di una trascorsa infanzia. Ebbe un sussulto nel cuore, come se una voce dolce e insistente gli ripetesse: «Non lascerai più questo posto! Vi resterai per sempre!».
Ruffo chiuse le palpebre e fece un passo, poi altri due e ancora altri, fino a perderne il conto; camminava quasi saltellando e, ubriaco di profumi, procedeva felice, respirando a pieni polmoni l’aria del bosco intrisa dall’umido odore del muschio: a un tratto un calore dolcissimo sul viso gli fece aprire gli occhi. Restò senza fiato: gli alberi si erano diradati o, più precisamente, separati in file quasi parallele e un enorme prato verde si apriva tra le due barriere come una grande piazza circondata da maestose colonne; ed ecco ai suoi piedi uno strapiombo, che diritto scendeva fino alla valle di Erco, tagliata a metà quasi nettamente dal corso del fiume Mirta; all’orizzonte naufragava, incendiando il cielo, un sole enorme e giallo.
Un’infinità di ricordi gli invase la giovane mente. Pensò improvvisamente a suo padre Adonedo Vivasperanza, che di mestiere faceva il pastore, a quella volta, a quella prima volta in cui, poco più che bambino, lo strappò ai giochi d’infanzia, conducendolo al pascolo per badare alle pecore del gregge. In tutti i paesi è consuetudine dare soprannomi alle persone e non sempre con la malevola intenzione di evidenziarne i difetti; sovente è per definire qualche aspetto del carattere o altrimenti l’attività o la professione tipiche della famiglia di origine: quello di Adonedo era Parlapoco perché taciturno e schivo: parlava lo stretto indispensabile, e non sempre di buona voglia. Era un uomo grande, largo di spalle e con profondi occhi azzurri che si sarebbero visti sfavillare, se il grosso e sudicio cappellaccio verde bottiglia dalle larghe falde non ne avesse nascosto l’intensità; le mani erano callose con dita ossute e le cicatrici, che si vedevano sulle braccia, quando nel caldo estivo rimboccava le maniche della camicia lisa, testimoniavano la fatica e la sofferenza di chi aveva passato interi giorni, notti, mesi e anni, a pascolare e a difendere il proprio gregge dalle bestie, dai rovi e qualche volta dagli stessi uomini.
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ALE il 27 giugno 2014 alle 12:40 ha scritto:
Uno scritto unico, che ogni libreria dovrebbe avere! ASSOLUTAMENTE CONSIGLIATO!!