Con l’etica civile si apre per il cristianesimo e la modernità uno spazio nuovo di riconciliazione. L’etica civile, infatti, favorisce la consapevolezza di libertà che diventano diritti per cui vale la pena impegnarsi, propizia la fine dell'indifferenza, amplia la capacità di ospitare ciò che è altro da sé. I contributi di Autiero e Magatti articolano il discorso intorno alle multiformi, appassionanti e complementari sfide poste da un rinnovato slancio dell’etica civile; in vista di un’assunzione di responsabilità e cura per il destino dell’uomo, verso il comune compito di formare un nuovo «cittadino etico».
DESTINATARI
Tutti.
AUTORE
ANTONIO AUTIERO ha insegnato teologia morale alla Facoltà teologica di Napoli e in seguito in Germania a Bonn, Saarbrücken e all’Università di Münster, dove dal 1991 è professore ordinario e direttore del Seminar für Moraltheologie. Membro di numerose associazioni scientifiche, le sue pubblicazioni spaziano dai temi di morale fondamentale a quelli di etica applicata. Nella sua attività di ricerca si dedica con particolare attenzione alle questioni bioetiche di inizio e fine vita e al tema più generale dell’etica della scienza. MAURO MAGATTI, sociologo ed economista, insegna sociologia della globalizzazione e analisi e istituzioni del capitalismo contemporaneo presso l’Università cattolica di Milano. Dal 2008 dirige il Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change. È membro del comitato editoriale dell'«International Journal of Political Anthropology», del comitato scientifico e di redazione di diverse riviste. Tra le ultime pubblicazioni: La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto (Feltrinelli 2012), Pensare il presente (Nuova Editrice Berti 2013).
PRESENTAZIONE
di Lorenzo Biagi
È un dato di fatto che la lettura più nota e accreditata dei rapporti tra cristianesimo e modernità è quella che è stata felicemente riassunta dallo storico francese Émile Poulat come un «processo di reciproca esclusione». Un luogo comune, un’evidenza affermata, e quel che procura crescenti difficoltà anche per la nostra attuale riflessione, un orizzonte insuperabile: se c’è cristianesimo non ci può essere modernità, se c’è modernità non ci può essere cristianesimo. Declinare tale luogo comune in chiave militante, ha ovviamente generato nella storia partiti contrapposti, anche se variamente articolati secondo sfumature interpretative diversificate, senza per questo far progredire fruttuosamente un’ermeneutica del moderno bisognosa di maggiore discernimento e lungimiranza. Anche perché, è bene dirlo subito, la modernità più che un’epoca storica nel senso storicistico rappresenta un processo, quasi un «dinamismo conquistatore», lo definisce Poulat. Insomma, la modernità non è una ripartizione temporale limitata e conchiusa; se essa ha un inizio, anch’esso oggi lo scopriamo più all’insegna di un processo di gestazione, lunga e laboriosa, piuttosto che come un punto fermo d’inizio. Se essa, poi, ha una fine, come si è provato a indicare con la categoria della «postmodernità», tale fine ci appare piuttosto come un processo di continua rimodulazione, dove se non sono secondari talvolta fattori antimoderni, sono tuttavia più decisivi nuovi rizomi, quasi slegati, che dalla linea centrale del moderno fioriscono secondo forme inaspettate, anche se non sempre per questo garanzia di bene per l’uomo e il pianeta.
Dal punto di vista cristiano, sappiamo che la chiesa cattolica ha condannato e rifiutato la modernità, con un’intransigenza ostinata, almeno fino al concilio Vaticano II. E dopo di esso, però, non sembra esserci stata un’opera culturale, teologica e pastorale, all’altezza della sfida aperta. Negli ultimi decenni, anzi, da più parti, senza spirito polemico, si è addirittura constatato che per alcuni versi si è tornati indietro rispetto al pensiero del Vaticano II. In grande sintesi, la questione focale vista dal Vaticano II nella modernità è quella dell’autonomia, di fronte alla quale esso non si è né ritratto né adeguato acriticamente. Walter Kasper lo esprime in modo efficace:
L’urgenza della problematica moderna dell’autonomia è avvertita dal Concilio Vaticano II, un concilio che non ha seguito i pronunciamenti ecclesiastici di una mentalità restauratrice, polemicamente e apologeticamente chiusa alla storia moderna della libertà, mentre ha riconosciuto invece due cose: la prima che l’esigenza di autonomia che l’uomo moderno sente può essere fondata sullo stesso messaggio cristiano, la seconda che nell’evo moderno si riscontra un progresso nella coscienza di libertà, quello che la chiesa per tanto tempo ha misconosciuto.
Nello stesso tempo, il concilio prende netta distanza da un umanesimo e da un autonomismo atei. E così facendo esso apre la via a una precisazione del rapporto fra chiesa e cultura moderna più differenziata, aperta e al contempo critica, precisazione che ci si attende proprio dal riflettere teologico.
È importante sottolineare l’indicazione di metodo che in tal modo usciva dal concilio e che poteva essere veramente fruttuosa: quella di coltivare un rapporto aperto e nel contempo critico con la modernità.
Dal punto di vista del moderno, si è fatta strada un’autocomprensione crescente che coincide con la inevitabile e progressiva scomparsa della religione, fino a interpretare il cristianesimo stesso come religione «dell’uscita dalla religione». A questo proposito, tuttavia, è assai istruttiva la rilettura della parabola della «secolarizzazione», fino agli esiti aperti con il dibattito sulla «società postsecolare» e sulla nuova lettura offerta con perizia dal filosofo canadese Charles Taylor. Anche qui, liberi da pregiudizi, si è scoperto che proprio la cultura moderna di un esasperato disincantamento, di un individualismo sterile e di un tecnicismo sempre più cinico, ha finito per produrre da se stessa una nuova domanda profonda di senso e, visti i limiti interni della cultura della secolarizzazione, oggi produce in maniera crescente anche un nuovo bisogno di religione. Come ha osservato il teologo protestante W. Pannenberg, oggi «il valore posizionale della religione nella coscienza e nel modo di vivere di molti uomini non è particolarmente alto». Tuttavia, anche se non sempre colto con perspicacia, il bisogno religioso è presente come bisogno di riempire di senso la vita e come sensazione di alienazione nel mondo secolare degli uomini, e persino in modo molto intenso, benché spesso non si riconosca che ciò che manca è appunto la religione.
La questione di fondo è che, come notava Albert Einstein, «non possiamo pretendere di risolvere i problemi pensando allo stesso modo di quando li abbiamo creati». I due interventi che proponiamo di seguito al lettore, uno del teologo morale Antonio Autiero e l’altro del sociologo Mauro Magatti, hanno il pregio di proporre, scevri da ogni presunzione, proprio alcune linee di lettura intorno al rapporto tra cristianesimo e modernità, «pensando» tale rapporto secondo parametri inediti. Entrambi, come il lettore potrà apprezzare, non mancano di franchezza nel circoscrivere le questioni di fondo, le implicazioni talvolta esigenti su più versanti, le conseguenze culturali e morali di una nuova pratica interpretativa della modernità che vede nella categoria dell’etica civile un vettore promettente per riappassionarci tutti al comune destino di uomini, a una nuova convivialità, a una costruzione più solidale della nostra vita in questo mondo. Non si tratta di una acritica e superficiale «corsa al centro», bensì del fatto che siamo in presenza di problemi nuovi che vanno pensati in maniera nuova, facendo in modo che ciascuno con-venga al progetto comune con tutto il bene della propria storia e della propria coscienza etica.
La prospettiva che viene qui dischiusa da Autiero e Magatti indica l’orizzonte dell’etica civile come orizzonte capace di mettere a frutto tutto il bene delle conquiste moderne, le quali lungi dall’escludere la fede cristiana, ne chiamano in gioco proprio alcuni caratteri costitutivi. La consapevolezza maturata, peraltro, è che alcune delle grandi affermazioni della modernità (il valore della coscienza personale, l’essere soggetto e non oggetto, l’autonomia e la responsabilità, la fratellanza, l’uguaglianza, il valore della diversità e della pluralità, il senso critico, tra gli altri) sono impensabili senza il fermento cristiano. D’altra parte alcune letture critiche della modernità compiute alla luce dei valori evangelici, lungi dal «condannare» in toto la modernità, possono costituire un apporto quanto mai fruttuoso proprio oggi di fronte ad alcune evidenti contraddizioni dei processi moderni. Mauro Magatti ne scandaglia opportunamente, come il lettore avrà modo di constatare, le criticità e gli effetti corrosivi. Il punto decisivo è che l’orizzonte del civile non è affatto opposto al religioso, e tanto meno al cristiano, come pure in un certo filone, prevalentemente di matrice positivistica, si è provato ad affermare. Al contrario, noi oggi sappiamo grazie a una serie puntuale di studi storici che l’Umanesimo moderno è sorto proprio all’interno di un poderoso ripensamento teologico e filosofico del posto dell’uomo nel mondo e di questo «nuovo» posto in relazione a Dio. Il civile nasce nel momento in cui l’uomo moderno prende coscienza che la convivenza interumana non è delegata né delegabile ad altri che alla sua responsabilità etico-politica, denominata appunto «civile», di più: «passione civile». In tal senso siamo giunti a qualificare l’Umanesimo italiano, in particolare, come Umanesimo civile, autentica esperienza culturale che farà da incubatore ad alcuni dei temi fondamentali dello spirito moderno. Come ha magistralmente mostrato con i suoi studi Eugenio Garin, se l’impostazione dei problemi che gli umanisti perseguono è impregnata del magistero dei classici greci (Platone e Aristotele anzitutto), «lo spirito animatore è tutto cristiano. Di un cristianesimo che all’ideale greco della contemplazione coscientemente oppone quello della volontà operante per il bene comune». E il faro della vita civile è appunto il perseguimento del bene comune. Fondamentale è dunque l’assunto umanistico moderno secondo il quale «la vita civile, questa società concretata dall’uomo, è, insieme, perfezione dell’individuo, che raggiunge la propria compiutezza solo nell’umana comunicazione», precisa il Garin. Se taluni sviluppi dello stesso mondo moderno hanno talvolta disatteso questo assunto originario, anche il pensiero e i comportamenti dei cristiani e delle chiese non hanno sempre saputo metterne a frutto le potenzialità che esso custodiva.
Ecco che il cammino intrapreso dalla ricerca della Fondazione Lanza, quello di una rinnovata «passione civile», oggi può dischiudere veramente lo spazio in cui gli uomini e le donne «urbanamente conversano» in vista della costruzione di una verace città che ha assunto ormai i contorni di tutta la famiglia umana. Se per questo nuovo mondo globale, sempre più abitato dall’inedito «cittadino digitale», come ha scritto il sociologo tedesco Ulrich Beck, non possediamo ancora le categorie, le mappe e la bussola, possediamo invece quella base umanistica che ci sprona a creare le condizioni per una «civile conversazione» imperniata sulla responsabilità, sul dialogo tra le diversità, sulla solidarietà, sul «generare versus il consumare» (M. Magatti), sulle «libertà incarnate» e sull’apertura compassionevole (A. Autiero), sull’essere soggetti e non oggetti. Ma per andare incontro a questa sfida dobbiamo prendere sul serio il compito educativo di formare un nuovo «cittadino etico», il quale non insiste esclusivamente sul suo terreno, non si alza al mattino chiedendo solo e soltanto il rispetto dei propri diritti, ma si impegna in un senso di responsabilità più ampio, e appunto al cominciar di ogni giorno si chiede: «Quali sono le mie responsabilità?». Ebbene, le riflessioni di Autiero e Magatti vanno in questa direzione ed esse si consegnano ora alla coscienza di ciascuno di noi affinché così motivato si senta di intraprendere il cammino della comune formazione del nuovo cittadino etico, abitato da una inedita passione civile per il bene comune, per la custodia e il governo dei beni comuni, per la cura del destino umano.