Perché la tigre è più affascinante del gatto? E l’ape più della vespa? Un testo che raccoglie descrizioni comportamentali di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, ragni, insetti e vermi presenti nelle pagine di letteratura patristica. L’occhio di osservazione dei Padri della Chiesa non ha intento scientifico, bensì morale e divide il mondo animale in buoni e cattivi: i primi con stili di vita virtuosi, i secondi viziati. Alla prima schiera perciò appartengono api, formiche e colombe, alla seconda corvo, pernice, talpa e tigre. Altre bestie, invece, come il pipistrello notturno, la vespa fastidiosa, l’orsa feroce, l’asino mite, vengono rivalutate dai monaci del IV-V secolo e liberate da una connotazione negativa. Piacevoli curiosità e bizzarrie della natura che possono ammaestrare anche l’uomo di oggi.
Autore
LUCIO COCO, studioso della tradizione patristica, come saggista rivolge il suo sguardo al presente, indagando i vissuti di fede dell’uomo contemporaneo alla ricerca di risposte che diano verità, consistenza e valore all’esistenza. Tra i suoi ultimi libri: "Piccolo lessico della modernità" (Qiqajon 2009), "Figure spirituali" (EMP 2010), "Interrogare la fede" (Lindau 2011), "I grandi temi del Concilio Vaticano II" (LEV 2012), "Non smettere mai di cercare" (EMP 2014), "A pranzo con i Padri del deserto" (EMP 2015), "Animalia" (EMP 2015), "In viaggio" (EMP 2015).
PREMESSA
Gli animali sono argomento di fede. - Basilio Magno
Si presenta in questo volume una piccola schiera di animali che fanno quasi capolino in diverse pagine di letteratura patristica. È evidente che le loro descrizioni, al di là di alcune notazioni comportamentali, non hanno un intento e uno scopo scientifico. Le osservazioni dei padri della chiesa servono soprattutto a una finalità morale. Le condotte degli animali sono prese come riferimento e sono da loro usate per correggere oppure raccomandare certe abitudini umane. Il confronto morale si impone sempre rispetto all’etologia e più in generale alla zoologia.
In generale il giudizio morale – ma forse si dovrebbe parlare di pregiudizio morale – che attraversa il popolo degli animali li divide in buoni, quelli che hanno stili di vita virtuosi che l’uomo farebbe bene a imitare e a servirsi come modello, e cattivi, quelli cioè nei quali prevale il vizio, la passione sfrenata, l’ingordigia, che l’uomo dovrebbe tenere ben presente per evitare modi di fare che in qualche modo possano assomigliare a essi.
Alla prima schiera perciò appartengono le api, le formiche, le colombe, alla seconda il corvo, la pernice, la talpa, la tigre. Il perché in molti casi è facile immaginarselo. La laboriosità della formica è proverbiale fin dai tempi di Esopo rispetto alla rilassatezza e alla spensieratezza della cicala. Il modello classico si trasferisce facilmente e con continuità nella letteratura cristiana. Le favole di Fedro presentano altrettanti lupi rapaci e leoni voraci quanti se ne possono trovare nei testi dei padri della chiesa.
Tuttavia, a fronte di una tale continuità tematica con la tradizione pagana, c’è un’altra categoria di animali che si sarebbe portati a includere nell’orbita delle passioni negative, per esempio l’orsa, il pipistrello, la vespa, e altri in quella dei sentimenti positivi, per esempio il cavallo, il cane, il cervo, che subiscono una trasformazione semantica, per cui il cane, da sempre considerato amico dell’uomo, è citato per mettere in guardia il cristiano dal non diventare un animale muto quando dovrebbe invece abbaiare per difendere i contenuti della fede. Dice infatti Ambrogio: «Apprendi a tenere [pronta] la parola nella tua bocca perché non sembri che, come un cane muto, con un silenzio colpevole, abbia abbandonato il posto assegnato alla tua fedeltà» (Ambrogio, Esamerone 6,4,17: PL 14,248). E anche la nobiltà del cavallo spesso scompare in questi insegnamenti per metterne piuttosto in evidenza la cocciutaggine e l’irragionevolezza: «Perché ti rendi simile ai giumenti, – scrive ancora il vescovo di Milano – dai quali Dio ti ha voluto separare dicendo: Non siate privi d’intelligenza come il cavallo e come il mulo (Sl 31,9)» (Ambrogio, Esamerone 6,3,10: PL 14,246).
Altre bestie invece, come il notturno pipistrello, la fastidiosa vespa e la feroce orsa subiscono una rivalutazione, che li separa da una connotazione negativa e li mette in connessione con una valutazione positiva. I pipistrelli infatti sono portati a esempio di un vivere sociale, per il loro strutturarsi in colonie, di cui gli uomini, con i loro egoismi, non sono affatto capaci (cf. Basilio Magno, Omelie sull’Esamerone 8,7: PG 29,181). L’orsa, a dispetto della sua ferocia, rivela una abilità di formatrice inattesa perché con la lingua modella la prole: «L’orsa plasma a sua immagine i suoi nati e tu non puoi formare i tuoi figli [rendendoli] simili a te?» (Ambrogio, Esamerone 6,4,18: PL 14,248). E anche le vespe, che sanno solo pungere, che non fanno alcun miele e che rappresentano quasi il negativo della nobile ape, in sant’Agostino subiscono una «promozione» e un salto di rango perché esse sono associate al timore di Dio che deve pungere ogni credente (cf. Agostino, Questioni sull’Ettateuco 6,27: NBA XI/2, 1164).
Una particolare rivalutazione la subisce l’asino, l’animale che porta Cristo nel suo ingresso a Gerusalemme. La sua mitezza, la sua mansuetudine ne fanno un modello di umiltà, improntata e modellata sui sentimenti di Gesù. Perciò sant’Agostino, esaltandone le doti, può dire di fare e agire come l’asino: «Porta il tuo Signore. Non cercare la lode, ma ad essere lodato sia chi siede su di te» (Agostino, Esposizioni sui Salmi 33/II, 5: PL 36,310). Anche altre bestie hanno in Cristo la loro, per così dire, rivalsa. Il riccio, la lepre, la folaga sono animali senza dubbio «minori» rispetto all’aquila, dalla vista straordinaria, oppure al nobile cervo, che sfida le altezze sublimi dei monti. Cristo però si fa roccia per dare riparo a questi esseri più piccoli, li protegge pur essendo paurosi, timidi, ricoperti di spine, che nella simbologia morale cristiana rappresentano i tanti minuti peccati che costellano le nostre esistenze. Il riparo della misericordia di Dio restituisce infatti a queste bestie una consistenza e una dignità che altrimenti non avrebbero. Così, con parole che conservano un forte afflato spirituale, si esprime Agostino: «E che, dunque, queste [bestiole] devono perire? No. Come infatti i monti altissimi sono per i cervi, così vedi cosa viene dopo: la roccia è rifugio per ricci e lepri (cf. Sl 39,3). [Questo] perché il Signore si è fatto rifugio per il povero (cf. Sl 9,10)» (Agostino, Esposizioni sui Salmi 103/III, 18: PL 37,1373).
Non ci sono dunque animali di inferiore dignità. «Considera un animaletto, – scrive ancora sant’Agostino – il più piccolo e minuto che vuoi. Se osservi la disposizione delle sue membra e l’animazione di vita con cui si muove, [vedrai] come tenga lontana da sé la morte, ami la vita, cerchi i piaceri, eviti i fastidi, utilizzi sensi diversi, si muova in modo adatto a sé! Chi ha dato alla zanzara il pungiglione con cui succhia il sangue? Come è sottile il canale che ha per suggere. Chi ha disposto ciò? Chi lo ha fatto? Ti spaventa il piccolo, loda chi è grande» (Esposizioni sui Salmi 148,10: PL 37,1944). Tanto l’elefante quanto le mosche e le formiche dimostrano che «non c’è niente di superfluo nel creato», afferma Ambrogio (Esamerone 6,5,35: PL 14,255), riecheggiando la sapienza pagana di Aristotele per il quale «in tutti [gli animali] vi è qualcosa di naturale e di bello» (Le parti degli animali I,5,645). Anzi noi possiamo e dobbiamo contemplare il creatore, scrive san Gerolamo, sia nell’infinitamente grande dei cieli, delle stelle, dell’oceano, dei cammelli, dei cavalli, dei leoni, sia nell'infinitamente piccolo, delle zanzare, «dei vermi e simili, di cui conosciamo più il corpo che i nomi» (Gerolamo, Epistole 60,12: PL 22,596). Anche attraverso le più piccole fra le creature – ci dicono questi padri della chiesa – è possibile risalire e magnificare il Signore e tutta la natura con le sue straordinarie manifestazioni e senza esclusione di alcun essere ci rinvia immediatamente al suo creatore dal momento che, come scrive san Paolo, le sue perfezioni visibili, non sono che un riflesso sublime delle perfezioni invisibili di Dio (cf. Rm 1,20).
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Don BRUNO ROGGERO il 26 marzo 2024 alle 16:35 ha scritto:
Fine letterato, traduttore e cultore di patristica, Lucio Coco ci fa assaporare in questo libro l'attenzione e la meditazione degli antichi monaci circa il regno animale.
Sono più di una trentina di rapide pennellate che si leggono con gusto e ci aiutano a capire quell'universo che andrà poi formandosi con i bestiari medioevali, veri trattati di sapienza simbolica