La fine del mondo entra spesso nelle conversazioni e nelle paure di tutti, sollecitata da periodiche profezie e bislacche superstizioni così come da sconvolgimenti ambientali e diseguaglianze sociali. Questo libro, tuttavia, non intende relegare l'apocalisse a discorsi allarmisti o moralisti. Perché la fine del mondo, guardata da vicino, parla all'uomo dei suoi desideri più intimi. E può diventare «grazia» nella misura in cui ciascuno converte il suo sguardo all'essenziale e riscopre lo splendore e la forza della vita accolta come dono. Il filosofo francese traccia un'arte del vivere, per una sfida che ogni persona è chiamata a osare: decidersi a favore della vita e di essa prendere tutto, anche quello che, concludendola, la aprirà su qualcosa di più grande.
RINGRAZIAMENTI
Non oso associare delle persone a questo libro, neppure per ringraziarle, nel timore di implicarle ingiustamente in un’opera che troveranno magari eccessivamente imperfetta. Ma alcuni dei pensieri che formulo qui, li devo al dialogo, costante o puntuale, che mi lega a loro. Mi sia quindi permesso di ringraziare, per il presente libro, Julien Grandjean, Pierre Dulau, Thierry Formet, Bruno Masala, Catherine Conrad, Reza Moghaddassi, Jérôme Decossas, Nicole Steffens e Denis Acker. Grazie ad Anne, per la sua rilettura, e grazie anche a Gabriel Raphaël Veyret.
ESTRATTO DAL PRIMO CAPITOLO
«LISBONA 1940»
COSA NASCONDE LA FESTA
Forse avete letto Lettera a un ostaggio di Saint-Exupéry. Mi ci sono imbattuto per caso. Il libro mi aspettava, lì, nell’edizione originale, con le sue macchie di umidità, l’odore di carta vecchia e qualche pagina pronta a volarsene via. Da chi l’ho ereditato? Da quale bancarella all’aperto, vendita di usato o solaio l’ho salvato? A questo libretto, Antoine de Saint-Exupéry affida i ricordi della sua partenza per gli Stati Uniti dopo aver bombardato invano per due mesi l’artiglieria tedesca. Siamo a Lisbona nel dicembre 1940. Della città portuale, Saint-Exupéry dice che era «una specie di paradiso chiaro e triste»1. Paradiso, perché bisognava scongiurare la catastrofe a forza di sontuosi festeggiamenti. «Guardate come sono felice, diceva Lisbona, serena e bene illuminata». Chi si abbatterebbe su tanto buon umore? Chi sporcherebbe con bombe grossolane le opere d’arte di cui Lisbona si è ornata? Chi potrebbe turbare una festa così bella? «A Lisbona, si metteva in scena la felicità, nella speranza che Dio ci credesse».
Leggendo quest’ultima frase, mi è parso chiaro che tale preghiera, ridicola e triste, è quella del nostro tempo. Lo sappiamo da quando Philippe Muray ci ha ribattezzati Homo festivus: siamo presi nell’ingranaggio di un’immensa campagna di divertimenti. Tutto è pretesto a festeggiamenti. Festa del cinema, delle scienze o della bagnacauda. Festival di Cannes, Coppa del mondo e Sagra del paese. Primavera dei poeti, Primavera degli studenti, dei ceramisti e delle strade. Perfino la Primavera dell’inverno, se per caso ci mancassero i pretesti… E dietro alla festa, accovacciata come sa stare solo la paura, la speranza che il mondo, nella sua defezione, ci risparmi. «Gli innocenti vengono risparmiati più facilmente» sussurriamo tra noi. Perciò, confondendo innocenza e spensieratezza, ci diamo da fare per procurarci un doping di umore festivo.
Come a Saint-Exupéry a Lisbona, anche a me succede di passeggiare in mezzo alla festa «attraverso i successi di questa mostra del buon gusto estremo, in cui ogni cosa sfiorava la perfezione, perfino la musica, discreta, scelta con tatto, che scorreva dolcemente sui giardini, senza eccessi, come un puro canto di fontana. Chi avrebbe osato distruggere nel mondo questo meraviglioso senso della misura?». Oggi la dismisura festiva ha sostituito il tatto di Lisbona: non è più la musica che si unisce ai fiori dei giardini, ma la discoteca, la Love Parade e la Festa della musica. La malinconia è ancora più presente, nascosta dietro la dismisura. Per di più, la festa si è generalizzata: non si tratta più solo di Lisbona ma di tutte le capitali del mondo. La spiaggia si sposta a Parigi, Halloween si autoinvita alla Festa dei defunti e le risate rimbombano alla TV – il che vuol dire in ogni casa e a qualsiasi ora del giorno –. Anche la catastrofe è cresciuta e, per coprirla, occorre un velo più denso, una festa senza limiti né interruzioni: una festa a misura di mondo, altrettanto rumorosa quanto silenziosa ne è la fine.
Rumorosa per non sentir venire il silenzio.
1. Gli emigranti
Antoine de Saint-Exupéry identifica una circostanza capace di aggravare ulteriormente il malessere percepito in mezzo ai festeggiamenti: «Il clima di tristezza, Lisbona lo doveva anche alla presenza di alcuni rifugiati». Si tratta degli emigranti, quei ricchi europei che, perché ricchi, sono potuti sfuggire al teatro della guerra. La descrizione che se ne fa, nonostante la delicatezza del narratore, è patetica. Saint-Exupéry li immortala al casinò: «Giocavano alla roulette o al baccarat, a seconda del portafoglio. Non provavo né indignazione né ironia, ma una vaga angoscia. Quella che ti prende allo zoo davanti a una specie estinta. Si mettevano attorno ai tavoli. Si stringevano accanto a un croupier austero e cercavano di provare la speranza, la disperazione, la paura, l’invidia e il giubilo. Come fossero vivi. Giocavano delle fortune, che forse in quel medesimo istante, erano svuotate di ogni significato. Usavano monete magari scadute. I valori delle loro casseforti erano magari garantiti da fabbriche già confiscate». Saint-Exupéry conclude: «Era irreale». Questi emigranti «non è di soldi che mancavano, ma di densità».
A Lisbona, tutto sembrava colpito da irrealtà. Tutto? Non proprio. Qualche pagina dopo, salito sul battello in partenza verso altri posti, Saint-Exupéry trova l’eccezione: «Sembravano reali al punto da aver voglia di toccarli con le mani, quelli che erano integrati alla nave e nobilitati da funzioni vere e proprie, per portare vassoi, far brillare il rame, lucidare scarpe, servendo con un certo disprezzo dei morti».
Ecco un’immagine esatta, anche se ridotta, del nostro mondo. Esatta, ma ancora troppo tenue: se oggi la festa ha preso una dimensione ancora più universale e frenetica, anche i servitori e i serviti hanno caratteri meglio definiti, diciamo pure più incisivi. I nostri ricchi assomigliano in tutto a quegli emigranti: il mondo, diventato un casinò, brucia, ma loro fanno ancora una puntata, contenti di aver guadagnato, a Wall Street o a Londra, un pugno di euro o di dollari che nessuno di loro si porterà in paradiso, a meno che non si tratti di quello – vana caricatura del paradiso vero – che chiamiamo paradiso fiscale. E in un mondo allucinato dai soldi, dal sesso e dai divertimenti, sembrano reali soltanto quelli che pagano i danni: chi muore di fame, i lavoratori il cui mestiere è iscritto nei corpi, le prostitute, le famiglie delle bidonville… La scarpa brilla grazie all’olio di gomito di chi la sfrega. Ma esiste solo il volto sporco del ragazzino che finalmente vi si riflette dopo aver tanto sfregato. L’uomo che sta in cima a quel piede, invece, è menzogna inventata dall’orgoglio umano per sentirsi dire che la fine del mondo non è per tutti. Il suo sorriso impeccabile, stile pubblicità, ignora ciò che l’altro, col suo corpo chinato sa già: cioè che anche il mondo si inclina sempre più. In questo mondo prossimo alla fine, di una prossimità al limite dell’intimità, l’apparato del reale l’hanno solo le persone povere, consunte e stanche. E il segreto della loro gioia, se ne resta, potrebbe essere una pista anche per noi.