SOMMARIO
Editoriale
2 Marco Gallo
La benedizione: tutto nel frammento
Studi
5 A nnalisa Caputo
Il “sì” della vita alla vita.
Benedizione, riconoscimento, riconoscenza
11 C laudio Doglio
«Ci ha benedetti in Cristo» (Ef 1,3).
La benedizione nella Bibbia
17 C hiara Giuliani
Rassicurare e proteggere
22 P asquale Bua
Sacramenti e sacramentali.
Elementi per ripensare il rapporto tra
ex opere operato ed ex opere operantis ecclesiae
27 D aniele Piazzi
Il Benedizionale:
un libro affascinante e poco conosciuto
32 Giuseppe Noberasco
Il fondo oscuro del male
37 Francesco Pieri
Liscia, solenne o… pastorale?
Il crinale sottile del benedire senza approvare
42 Marco Gallo
Quando le benedizioni strutturano la pastorale.
Il “caso Erfurt”
48 Gianluca Gerbino
Esposti alla carne e allo Spirito
Formazione
53 A lessandro Deho’
L’eco del genuinamente umano
1. Intrecci di vita, di morte e di amore
58 N orberto Valli
Spes non confundit
1. La speranza come motivo fondamentale
Asterischi
63 Morena Baldacci
Benedire con i bambini.
La benedizione come iniziazione liturgica
70 Segnalazioni
Editoriale
Marco Gallo
La benedizione: tutto nel frammento
Nel suo commento alla Lettera ai Romani, Tommaso spiega che si può benedire (e maledire) in tre modi: enunciando, comandando e desiderando1. La prima forma consiste nel parlare bene di qualcosa o di qualcuno. E non è cosa da poco, sia per chi benedice – perché presuppone attenzione e autenticità –, sia per chi riceve – perché il riconoscimento ricevuto è un bisogno primario e permanente dell’esistenza. La seconda implica un atto di potenza ed è in un certo senso propria di Dio o di chi lo serve: si comanda che il bene raggiunga efficacemente le creature. Avere il potere di fare il bene e compierlo adesso, senza procrastinare, è atto generativo e salvifico. La terza forma è la condivisione di un auspicio di bene, è dar voce ai più bei desideri per il futuro, anche se ora non sono maturi. Lo sguardo benedicente si allarga all’avvenire, a ciò che ancora non c’è e non si può pretendere al momento, ma si apre a un invisibile compimento. Dire “benedizione” è già dunque entrare in una azione solo apparentemente semplice e innocua. Ma l’orizzonte storico contingente conosce l’opaco e il tragico. A volte il bene si opacizza tanto da non essere più visibile. È davvero sempre possibile vedere il buono in una situazione o nominarlo? Non è osceno parlar di bene nell’abisso? C’è chi ha scritto che sfogliare le migliaia di pagine del Benedizionale dà la sensazione di contemplare un quadretto ingenuo e imbellettato, di una realtà che così non esiste2. La vita è invece piena di ostilità, di forze distruttrici. Il linguaggio dei sacramenti raccoglie pienamente la sfida del male e si struttura con verbi dal pieno spessore: iniziare, esorcizzare, eleggere, rinunciare e credere, immergere e rinascere, ungere e profumare, nutrirsi e sacrificarsi, far penitenza ed essere riammessi, toccare il corpo malato, servire in modo totalizzante e fare alleanza. Benedire, di fronte alle forze distruttive, non è troppo poco o addirittura immorale? Si comprende perché il discorso sulle benedizioni sembri per alcuni cosa poco seria, per altri eccessiva, e così – come abbiamo visto di recente attorno all’affaire Fiducia supplicans – si scatenano polemiche al calor bianco, persino tensioni ecumeniche e minacce di scisma. Eppure, nel Nord Europa, in particolare nel mondo germanofono, il tema della benedizione ha conosciuto negli ultimi vent’anni un interesse straordinario, ecumenico e trasversale. I teologi luterani, dopo aver interpretato per secoli le benedizioni come trionfo della superstizione più ingenua e tipica dei cattolici, a partire dal mondo degli esegeti, per poi allargarsi a quello dei teologi pratici e infine dei dogmatici, hanno fatto sorgere un vero e proprio nuovo filone di ricerca e proposta pastorale. Si parla nel contesto protestante di «un boom attuale delle benedizioni» (Gunda Brüske, Bernd Lutz, c ), di un bisogno che si intensifica nel tempo. Non solo le benedizioni sembrano positivamente accettate, ma vi si riconosce un sorprendente effetto (emotivo), come una forma di religione pubblica accettata e benvenuta nel tempo secolare. Alcuni arrivano a formulare robusti trattati di Teologia della benedizione3. Tra i cattolici, lo stesso filone attecchisce con significative varianti e continuando una sensibilità tradizionale, tanto che il Benediktionale tedesco (1978) uscì senza attendere l’editio typica romana del 1984 ed è ancora da questa indipendente e originale. Non mancano diocesi che hanno fatto delle benedizioni i riti centrali della loro vita liturgica (Erfurt in particolare). All’origine di questo nuovo filone di ricerca si trovano i rinnovati studi biblici e di storia della liturgia del secolo scorso. L’esegesi biblica trattava il tema della benedizione come un rimasuglio magico, un reperto antico vagante nelle narrazioni, ma quasi insignificante rispetto ai grandi temi della teologia biblica come redenzione, salvezza e alleanza. Quando alcuni esegeti (Claus Westermann per primo, non a caso figlio di missionari protestanti in Africa) provarono a liberare la benedizione da questo addomesticamento, ne emerse una ricchezza straordinaria, prima finita fuori dai trattati e persino dai dizionari biblici più enciclopedici. Lo stesso si deve dire per gli studi di scienza liturgica. Andare alla ricerca delle radici storiche della preghiera eucaristica ha condotto gli studiosi a incrociare il tema della benedizione giudaica dopo il pasto, forma rituale che ben giustifica i gesti di Gesù nell’ultima cena, comandati ai suoi in memoria di lui. Benedizione e eucaristia hanno la stessa culla e hanno camminato strette per molti secoli. E quando del canone eucaristico si è perso di vista il suo carattere di rendimento di grazie per leggerlo come preghiera di santificazione e consacrazione, lo stesso è avvenuto per le benedizioni, che hanno smarrito la loro identità di dialogo tra Dio e il creato, per parcellizzarsi in un’infinita costellazione di riti che domanda al sacro di esorcizzare il male e proteggere ciò che è profano. Il De benedictionibus, quasi come ultima appendice della riforma liturgica postconciliare, uscì in sordina, negli anni in cui gli entusiasmi iniziali erano finiti. C’è ancora una storia da scrivere attorno alla vicenda della sua lunga composizione, che affascina chi si affaccia: dalle poche pagine della prima proposta del 1970, il testo finale ne conta più di cinquecento e negli adattamenti nazionali più di mille, segno di una vitalità quasi travolgente. Così è della teologia che da esso si apre, con i suoi interrogativi radicali: esiste una benedizione? Chi può benedire? E chi benedirà colui che benedice?