Editoriale
R. Repole
Potere nella liturgia
Studi
G. Laugero
Unzioni regali antiche e nuove
E . Parolari
Unti del Signore
G. Routhier
Clericalismo e liturgia
S. Morra
Personaggi in cerca d’autore
F. Ceragioli
Padri, non padroni
G. Tornambé
Assemblea e sinodalità
M. Belli
L’urto del corpo rituale
M. Gallo
Far silenzio o far tacere?
E . Borg na
La fragilità come comunione
Formazione
A .M. Baldacci – M. Roselli
Ritualità della famiglia
3. Le forme del tempo
S. Raffa
L’espandersi disinteressato della vita
3. Mangiare
L . Palazzi – F. Manicardi
Corpo, spazio, rito
3. Unire
Asterischi
S. Sirboni
L’OGMR: cantare e fare silenzio
Posta
Inserto on line
G. Drouin
Chiesa e chiese
Roberto Repole
Potere nella liturgia
«Ci vogliono due anni per imparare a parlare – ha scritto Hemingway – e sessanta per imparare a tacere». Perché le parole hanno il potere di dischiudere orizzonti e di istituire legami; ma possono anche spezzare dei vincoli, disorientare da ciò a cui dovrebbero dirigere o fatalmente catturare e distruggere quello su cui si posano. Scegliere, dunque, se parlare e quali parole dire richiede una grande disciplina. Tanto più se esse non possono che avere un carattere introduttorio – come è nel caso di un Editoriale – e se concernono una problematica tanto intrigante quanto ingarbugliata, quale quella che tocca il potere e la liturgia. Qui la complessità di una questione come quella del potere nella Chiesa si fa particolarmente acuta: perché concerne da troppo vicino l’alterità del Dio che si celebra e l’insondabile profondità del cuore di ogni credente; e perché laddove il potere si risolvesse in potere di un essere umano su un altro essere umano «nel nome di Dio» o, peggio, mettendosi «nel posto di Dio», allora si sarebbe alle prese con una delle più grandi perversioni di cui gli uomini sono capaci. Ciò dunque che mi pare realisticamente in mio potere di fare, in un caso come questo, è di offrire semplicemente qualche suggestione: nel senso, proprio, di suggerire qualche sentiero di riflessione; ma anche di suscitare un qualche interesse sui diversi soggetti che esercitano un potere nella liturgia, oltre che sulla negatività e la positività dello stesso. Perché, se nell’immaginario collettivo potere richiama immediatamente una realtà ambita nonché fortemente ambigua, esso può anche avere a che fare – come ormai risaputo – con qualcosa di confinante con la nostra stessa libertà, con la possibilità di dare inizio a qualcosa di inedito e buono, con l’abilitazione a mettere un freno sul potere dell’uno sull’altro, salvaguardando così un soggetto collettivo e l’alleanza delle persone... C’è, dunque, potere e potere. E questo vale anzitutto per coloro a cui corre immediatamente il pensiero, riflettendo su potere e liturgia: quanti, cioè, la liturgia la presiedono e amministrano i sacramenti. Il magistero dell’ultimo concilio ha riletto il ministero ordinato in un doppio riferimento, cristologico ed ecclesiologico insieme; e sulla sua scia si è posta la migliore e più armonica riflessione teologica post-conciliare. Ne è espressione, ad esempio, la rilettura sinteticamente offerta da Kehl, quando ricorda che «un’azione ministeriale legittima è sempre azione ecclesiale, azione che è compiuta in persona Ecclesiae». Poiché però «la chiesa non nasce e non esiste da se stessa né dal consensus fidelium, bensì deve la propria esistenza alla chiamata di Gesù Cristo che la raduna [...], per questo il ministero ecclesiale manifesta al tempo stesso sempre anche questa relazione della chiesa con il suo capo, Gesù Cristo. La rappresentanza simbolica o trasparenza di Gesù Cristo nel ministero (in persona Christi capitis: PO 2; LG 10. 21. 28) lo abilita nella chiesa anche ad agire con autorità di fronte a essa». Ciò si esplica nel triplice munus a cui si riferisce il Vaticano II, di cui fa parte pure quello sacerdotale. Nella suddetta cornice il ministero sacerdotale del ministro ordinato è a servizio della Chiesa, anche in quanto è a servizio della mediazione di Cristo, senza la quale non ci può essere un popolo sacerdotale. Che cosa è dunque anzitutto in potere dei ministri ordinati, quando presiedono la liturgia? Essi possono rimandare a colui che si fa presente in ogni azione liturgica. Essi possono fare segno al Cristo risorto, che è trascendente la Chiesa ed ogni assemblea liturgica, ma che è la ragion d’essere dell’una come dell’altra, tanto che in sua assenza non potrebbe esserci né liturgia cristiana né Chiesa. Essi possono dunque richiamare un Presente ed evocarlo nella sua trascendenza, nel suo rendersi presente cioè al modo dell’«assente», ovvero dell’irraggiungibile, dell’inoggettivabile, del non catturabile, dell’in-disponibile, dell’in-utile. È quasi superfluo richiamare come ciò sia un’arte: con tutto quanto di estro e disciplina l’arte suppone. Si è tanto più all’altezza di quel che davvero si può nel presiedere un’azione liturgica quanto più, ad esempio, si è per primi realmente «catturati» dal Crocifisso- Risorto quale persona vivente, che continua a parlare e ad offrirsi in dono, nello Spirito, in una maniera inedita, mai sperimentata prima, nell’offerta di quel pane quotidiano e indispensabile che ogni liturgia, in modo differenziato, porta in dono. Così come si è tanto più all’altezza di quel che realmente si può nel presiedere un’azione liturgica quanto più, per fare un altro esempio, si è in cammino, alla scuola del Battista, in una sequela del Vivente nella quale, con tutta la propria esistenza, si è asceticamente volti a indicare lui, e a dirottare su di lui il proprio e l’altrui sguardo. Si può facilmente intuire come il luogo in cui si può principalmente esprimere il potere positivo del ministro ordinato è lo stesso nel quale il potere può facilmente convertirsi in dominio, prevaricazione clericale, perversione. È ciò che accade laddove il presiedere diventa quel protagonismo narcisista di chi rende assente se non superfluo il Vivente e di chi lo cosifica, pietrificandolo. Che i modi per fare ciò possano essere diversi e talvolta solo apparentemente antitetici non deve che essere evocato. Si può catturare lo spazio di Cristo con una incuranza verso ogni ordo liturgico, quasi che la liturgia fosse un possesso o lo spettacolo di chi la presiede; ma si può rendere morto il Vivente con un ritualismo che non rimanda ad altro se non al gusto di chi presiede. Le tonalità di questo dominio sono diverse e possono giungere all’aberrazione di usare del posto di Cristo per fare violenza all’altro. Ci sono però altri poteri nella liturgia. Laddove essa prevede diverse ministerialità, insieme a quell’uno che è il ministro ordinato ci sono infatti degli alcuni che svolgono un servizio. Anch’esso può costituire un aiuto a richiamare il protagonista di ogni assemblea liturgica e ad attivare quanto è in potere di tutti, o può distrarre da Colui che convoca, divenendo prevaricazione sugli altri: anche solo perché invece di favorire il dialogo intimo e ineffabile di ciascuno con Cristo diviene elemento di distrazione e disturbo. Ma soprattutto c’è un potere di tutti e di ciascuno, nella liturgia. È il potere di ricevere il dono di una Presenza per quello che è e che vuole essere, nella libertà che contrassegna il Cristo vivente. Accogliere ed ospitare qualcuno richiede infatti sempre un grandissimo lavorio. Bisogna mettere a disposizione tutte le proprie potenzialità per fare di se stessi la casa ospitale di un altro: tanto più quando si tratta dell’Altro per eccellenza. Quando ciò non avviene, che lo si voglia o no, si finisce per esercitare potere sullo stesso Cristo: perché si neutralizza la sua parola, perché ci si difende da lui, perché non gli si consente di agire... Ma proprio lì si dispiega anche tutto il potere di Cristo, che continua a donare vita pure laddove essa viene rifiutata o banalizzata.