Per comunicare meglio
61. L’umorismo
fa bene alla comunicazione (R. Laurita)
I nostri modi di dire
21. Dio ti vede
1. L’umanità coram Deo. Un incontro di sguardi
(A. Carrara)
2. Lo sguardo di Dio. Una panoramica biblica
(P. Rota Scalabrini)
3. Tra visibile e invisibile. Educare a stare
alla presenza di Dio (A. Augelli)
Sulla soglia di una nuova partenza
Sussidio per l’inizio dell’anno pastorale
in parrocchia (R. Laurita)
Dalla 21ª alla 27ª ordinaria
23 agosto / 4 ottobre
21ª domenica ordinaria (M. D’Agostino, R. Maiolini, S. Cumia)
22ª domenica ordinaria (G. Boscolo, M. Gronchi, S. Cumia)
23ª domenica ordinaria (G. Boscolo, D. Vivian, S. Cumia)
24ª domenica ordinaria (G. Boscolo, L. Eusebi, G. Tornambé)
25ª domenica ordinaria (G. Boscolo, A. Carrara, G. Tornambé)
26ª domenica ordinaria (G. Boscolo, A. Cencini, G. Tornambé)
27ª domenica ordinaria (G. Boscolo, E. Olivero, V. Brunello)
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RUBRICA
61. L’umorismo
fa bene alla comunicazione
di Roberto Laurita
Ci sono quattro virtù cristiane:
la fede, la speranza,
la carità e il buonumore
(Robert Hugh Benson, 1871 – 1914,
scrittore e presbitero inglese, proveniente dalla Chiesa anglicana)
Questa è l’ultima puntata della rubrica che ha accompagnato
per alcuni anni i lettori di Servizio della Parola e chi scrive ha
scelto di consacrarla ad un tema importante per ogni comunicazione:
l’umorismo o humour che dir si voglia. E quel procedimento
che di esso talora si nutre e che è la provocazione.
Una forza e un dono
Lo humour è una forza perché non c’è arma migliore per disarmare
la vita, in ciò che essa ha di più crudele, ma anche gli altri,
in quello che recano di più nocivo.
Avere il senso dell’umorismo vuol dire prendere le distanze,
relativizzare, cogliere innanzitutto l’aspetto divertente o assurdo
di alcuni aspetti di un’azione o di un discorso.
Ma l’umorismo è anche un dono: che cosa c’è di più bello di
far ridere? E quale ricompensa è più grande di uno scoppio di
risa?
Far ridere significa smuovere, emozionare: costituisce dunque
il segno di una comunicazione riuscita. Non è un caso se la creazione
pubblicitaria e i creativi in generale amano lo humour: in
effetti si tratta di uno dei migliori vettori di idee, uno dei mezzi di
espressione e di scambio più forti. Crea una connivenza tra l’emittente
e il destinatario e garantisce così l’impatto cercato.
L’umorismo è profondamente umano. Noi abbiamo perciò il
dovere di farne un buon uso. Nella vita come nella pubblicità.
Perché esiste anche un altro riso, questa volta crudele e violento,
e un altro humour, feroce, che è parente della derisione.
Fondato sul rifiuto dell’altro, del suo aspetto, dei suoi valori, è
un ripiegarsi su se stessi in cui lo scherno, la derisione nasconde
male la sua causa che è la paura e il rifiuto della diversità, la negazione
della differenza.
Essere credenti non è una faccenda triste
E tutti siamo invitati a scoprire che “fede” fa rima veramente
con “gioia”.
Il giorno dopo la morte di Raymond Devos, umorista franco-
belga, cabarettista e comico, venerdì 16 giugno 2006, Bruno
Frappat scriveva sul giornale La Croix: «[...] il riso dilata non “la
milza” ma lo spirito, il cuore, e fa passare un po’ di aria nei nostri
atteggiamenti chiusi, bloccati, nelle nostre posizioni troppo serie,
nel nostro modo di considerare quello che facciamo e diciamo
con eccessiva gravità. Il riso non relativizza ciò che è serio per
abbassare l’uomo, ma l’apre ad una maggiore umanità: per distendere
l’anima, donarle un maggior respiro, maggior ampiezza,
proprio come fa un trampolino». Certo, Charles Péguy ha
scritto che il Figlio di Dio non era disceso dal cielo per raccontarci
delle storielle. Ma anche le storielle possono consentirci di
entrare nella serietà dell’amore di Dio per ognuno dei suoi figli.
Interrogato sul ruolo dello humour nella vita di un papa, Benedetto
XVI ha risposto, ridendo: «Non sono il tipo che ha sempre
una storiella divertente da raccontare! Ma trovo che è molto
importante saper cogliere gli aspetti divertenti della vita e la sua
dimensione gioiosa e non prendere tutto in modo tragico, e direi
che questo è anche necessario per il mio ministero. Uno scrittore
ha detto che gli angeli possono volare perché non si prendono
troppo sul serio. E noi potremmo volare un po’ di più se non
ci dessimo delle grandi arie».
Il gusto di provocare
La provocazione fa parte integrante dell’arte di comunicare.
Interpella, risveglia chi si è addormentato ed altri sonnolenti
che campano su quella che pretendono sia l’evidenza. I pubblicitari
l’utilizzano. Tutti ricordano le differenti campagne di Benetton
che ha “giocato” con parole sensibili, come il razzismo o
l’AIDS. E, in Francia, non dimenticano la campagna della Banque
National de Paris: «Il vostro denaro m’interessa», che aveva
sia attratto che provocato reazioni di rifiuto.
a) Che cosa significa provocare?
La provocazione appartiene al grido che interpella e ridesta,
ma anche all’appello, alla richiesta di aiuto o alla resistenza.
Provocare vuol dire dunque interpellare qualcuno che avrebbe
la tendenza a non vedere, perché non si assopisca, non si
addormenti, ma è anche per l’emittente-provocatore un mezzo
per ricordare al mondo la sua esistenza, farsi intendere e far
passare un messaggio. C’è, dunque, nella provocazione, una formidabile
e insopprimibile volontà di comunicare come di essere
riconosciuti.
I provocatori sono degli artisti. Bisogna essere artista per
essere provocatore perché la provocazione è creativa, esce
dall’ordinario e rompe con esso, realizza un avvenimento.
b) Il procedimento della provocazione
Tecnicamente la provocazione è un procedimento. Mette
insieme tre funzioni del linguaggio, qui allargate alla comunicazione
(Roman Jakobson): la funzione espressiva (centrata
sull’emittente), la funzione conativa (orientata verso il destinatario),
la funzione fatica (focalizzata sul contatto).