INDICE
Editoriale
Introduzione
Gianluigi Pasquale, Una ragione per credere: Fides et Ratio vent’anni dopo
Relazioni
Achim Schütz, Glauben – Der im höchsten Sinne qualifizierende Akt des Homo humanus
Giovanni Salmeri, La fede come atto umano. Una riflessione a partire da Giovanni Duns Scoto (discussant)
Rino Fisichella, “Fede” e “ragione”: perché la Rivelazione apre alla ragione
Gianluigi Pasquale, Il concetto di Rivelazione nella storia e come storia: quello che “apre alla ragione” (discussant)
Leonardo Messinese, La fede dinanzi all’affermarsi della scienza in Europa
Giuseppe Tanzella-Nitti, La fede dinanzi all’affermarsi delle scienze in Europa (discussant)
Giuseppe Lorizio, “Actus [autem] credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”. Il realismo della fede
Patrizia Manganaro, Il realismo della filosofia. Sul pensare finito l’infinito (discussant)
Vincent Holzer, La raison à l’épreuve de la christologie
Pierluigi Valenza, Teologia e filosofia della religione di fronte alla rivelazione: un destino parallelo? (discussant)
Flavia Marcacci, «Gaudium aude!». Fides et ratio venti anni dopo come metodo per la ricerca nelle università
Massimo Epis, Il pensare teologico nell’ambito dell’università (discussant)
Conclusione
Gianluigi Pasquale, Una ragione per credere: Fides et Ratio vent’anni dopo
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Editoriale
In tempi in cui si discetta e si blatera a proposito di post-verità, di fake-news e di nuovo realismo, potrebbe risultare anacronistico il confronto con l’enciclica promulgata da Giovanni Paolo II venti anni or sono, dal titolo Fides et ratio. Eppure, proprio in un contesto, sia culturale che ecclesiale come quello attuale, sembra utile, anzi necessario tentare di interpretare questo testo, anche per superarlo, ma soprattutto per accompagnare la fede e la ragione, affinché non prestino entrambe il fianco a nessun genere di fondamentalismo sia credente che laicista.
Del resto la vicenda del rapporto fra Chiesa cattolica e filosofia moderna e contemporanea ha del paradossale, ma si tratta del paradosso capace di destare stupore e suscitare attenzione in chi è disposto a leggere e interpretare senza fuorvianti precomprensioni tale vicenda. Allorché infatti la ragione esprime la propria presunzione di “conoscere il tutto” (F. Rosenzweig) e quindi assume un atteggiamento di dominio sul reale e l’umano, il Magistero della Chiesa è lì a ricordarle i propri creaturali limiti e a farle prendere coscienza della propria radicale infermità (un esempio fra tutti la critica al razionalismo contenuta nella Dei Filius del Vaticano I), quando invece la ragione si autoflagella ritenendosi incapace di conoscere alcunché ed assumendo un atteggiamento rinunciatario di fronte alle grandi domande metafisiche, che comunque abitano la coscienza di ogni essere pensante («chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita» FeR 1), allora la Chiesa le rammenta che non può abdicare al proprio ruolo e alle proprie prerogative e a spronarla perché osi l’avventura del sapere (basterà ricordare le critiche al fideismo da parte del Magistero ecclesiale).
L’enciclica di cui abbiamo celebrato il ventennale, muove piuttosto nella seconda direzione, senza naturalmente dimenticare i rischi derivanti da assurde pretese razionalistiche, e quindi incoraggia il pensiero ad esprimersi al meglio in questo momento di trapasso culturale, che la Fides et ratio non esita a chiamare di postmodernità, indicandone limiti e potenzialità (cf. FeR 91). Da questo punto di vista va certamente salutato con interesse il fatto che, quando appunto si accinge ad offrire indicazioni relative al postmoderno, l’enciclica adotti un approccio tale da dirimere l’annosa questione che vede contrapporsi il fronte di coloro che leggono la formula (ed evidentemente anche il suo contenuto) in senso meramente congiunturale, sostenendo quindi che il termine stia a designare un fenomeno passeggero o una sorta di moda culturale, priva di prospettive di lungo respiro, e quanti al contrario ritengono che il postmoderno sia invece il nome, se non di una nuova epoca, dato l’imbarazzo stesso a trovare una parola adeguata per questo nostro tempo (postmoderno infatti dice semplicemente rapporto di contiguità cronologica e di superamento antitetico della modernità), almeno di un momento di trapasso epocale, tale da incidere profondamente sulla cultura e sulle coscienze dei nostri contemporanei. Fides et ratio, pur con le dovute cautele, non ha timore di parlare di “epoca della postmodernità”, nella quale emergono fattori autenticamente “nuovi”, «capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli» (FeR 91). E in questa prospettiva la parabola del trapasso dalla modernità alla postmodernità sembra potersi adeguatamente, anche se non esaustivamente, designare nei termini del passaggio dal sistema al frammento, e, in direzione antropologica (e sempre col ricorso a Rosenzweig), dalla figura dell’“uomo col suo bel ramo di palma”, che procede attraverso l’esercizio di una ragione capace di vincere ogni battaglia, all’“io polvere e cenere”, conscio della propria radicale caducità e temporalità, nonché della infermità del proprio pensiero e della propria ragione in ordine alla conoscenza della verità. Certo oggi abbiamo piuttosto a che fare con quella che R. Mordacci ha definito la “condizione neo-moderna”, ma proprio in questa prospettiva si rende necessaria una riflessione come quella messa in campo dall’enciclica.
È convinzione profonda della Chiesa che la fede e la ragione possano reciprocamente fecondarsi e per questo debbano armonicamente convivere in un pensiero credente che di volta in volta assumerà connotazioni filosofiche o teologiche, ma che dovrà comunque innestarsi in un orizzonte sapienziale unitario, onde evitare il pericolo, appunto postmoderno, di una esasperata frammentazione: «La settorialità del sapere, in quanto comporta un approccio parziale alla verità con la conseguente frammentazione del senso, impedisce l’unità interiore dell’uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non preoccuparsene? Questo compito sapienziale deriva ai suoi Pastori direttamente dal Vangelo ed essi non possono sottrarsi al dovere di perseguirlo» (FeR 85).
In questo senso – come abbiamo cercato di mostrare nella nostra riflessione e in diverse altre occasioni – l’incipit dell’enciclica può davvero costituirne la chiave di lettura più adeguata: «La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità» (FeR 1). Il testo, infatti, da un lato costringe ad evitare ogni forma di integralismo, sia da parte della fede nei confronti della ragione (integralismo fideistico), sia da parte della ragione nei confronti della fede (integralismo razionalistico), ma nello stesso tempo propone una visione contemplativa della verità, nella quale vengano dissolte tutte le forme di pensiero dominante o calcolante e si esprima in tutta la sua arricchente potenza il pensiero meditante, che se è davvero tale non potrà non assumere come proprio punto di Archimede la Rivelazione, che, nel quadro della Fides et ratio, è chiamata al ruolo di principio orientante non solo il sapere teologico, ma anche quello filosofico.
La scelta di porre al centro la rivelazione ci sembra oltremodo significativa e tale da conferire al percorso un reale e decisivo orientamento, capace di interpellare il pensiero filosofico della modernità compiuta, della postmodernità e della neo-modernità, che non di rado affronta con le proprie categorie e le proprie metodologie proprio questa tematica fondamentale della teologia cristiana. E tuttavia questa scelta non implica una vera e propria svolta, bensì include una posizione ben nota in campo cattolico in ordine al problema della verità, secondo cui questa si definisce per la sua capacità di adaequatio rei et intellectus. Ecco come si esprime il documento a questo proposito: «Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia che non fosse essa stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi – siano essi funzionali, formali o utili – del reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all’essere stesso dell’oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell’uomo di giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga la verità oggettiva, mediante quella adaequatio rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica. Questa esigenza, propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio Vaticano II: L’intelligenza, infatti, non si restringe all’ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e debilitata» (FeR 82). L’orizzonte rivelativo lungi quindi dall’escludere quello adeguativo lo include e lo potenzia, sicché la verità come revelatio comprende ed esige la verità come adaequatio quale sua condizione di possibilità e di capacità di attingere la cosa stessa e non semplicemente il suo manifestarsi.
Risulta programmatico e decisivo quel passaggio dell’enciclica nel quale, dopo aver messo in guardia dall’adozione di un pensiero meramente fenomenista e quindi relativista, viene affidato agli intellettuali cattolici un compito tanto arduo quanto affascinante e comunque imprescindibile: quello di percorrere senza cedimenti il travagliato, ma non impossibile cammino, che dal fenomeno conduce al fondamento, dal significato al senso, dalla serie dei come a quella dei perché: «Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l’interiorità dell’uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione» (FeR 83).
I contributi offerti nell’ambito del convegno, promosso dalle Facoltà di Teologia e di Filosofia della nostra Università, non si sono limitati all’esegesi dell’enciclica, ma hanno tentato, a partire dalle diverse competenze dei relatori, di muovere da essa per affrontare una serie di problematiche di grande attualità e intorno alle quali c’è ancora molto da riflettere e dialogare fra filosofi e teologi, secondo il paradigma di quella “cultura dell’incontro”, tanto cara a papa Francesco, che l’ha riproposta e ribadita nella sua recente visita alla Lateranense del 26 marzo 2019.