Editoriale
Ridare alla misericordia la sua ricchezza
Canterò in eterno le misericordie del Signore (Sal 89,1)
In «Bibbia Aperta», associazione di cultura biblica attenta alle letture delle diverse confessioni religiose, è stato ideato e organizzato questo percorso di studio biblico sulla misericordia dopo le prime parole del papa, il confronto con il lavoro di Walter Kasper e un informale giro di colloqui con alcuni biblisti.
Per prima cosa ci ha colpiti il fatto che Israele ha intrecciato l’intera propria storia con lo sforzo di capire, chiedere a Dio il senso e i frutti della sua misericordia. Una storia tormentata che per i cristiani ha avuto il suo culmine nella testimonianza e nella predicazione di Gesù, ed è continuata ad opera degli stessi cristiani: molti ne hanno fatto l’ispirazione della propria testimonianza, altri uno strumento di potere. Dopo questa fase dello studio vi sono alcune osservazioni, storiche, sociali, culturali, che possono essere condivise.
Tutti ricordiamo la storia delle «misericordie», associazioni caritatevoli di nobilissima memoria, e tutte le azioni di coloro che in questi secoli si sono spesi interpretando la misericordia come assistenza a malati, poveri, carcerati, comunque a fare opere buone. Misericordia focalizzata in opere, in gesti, in clemenza concessa da un’autorità. Tuttavia, dallo studio biblico, la misericordia non si presenta anzitutto come un gesto o una serie di gesti, ma come un atteggiamento radicale, un modo generativo di aprirsi, di essere verso l’altro. La misericordia di Dio si manifesta nel momento stesso in cui egli osserva il disagio del suo popolo e ne ascolta il grido: è la storia di una relazione prima di essere questo o quell’atto. È il primo elemento, di assoluta importanza, che continuerà intrecciandosi con la storia degli uomini che sanno essere misericordiosi, come Mosè che si fa intercessore (altro aspetto attivo, coraggioso, della misericordia). Tutto nasce dalle viscere (rahamim), centro della generazione e non solo della commozione, dall’alleanza che Dio sceglie di fare con il popolo, dalla sua fedeltà nelle relazioni.
Eppure Dio minaccia spesso cose terribili al suo popolo, e molti cristiani ancora oggi lo sentono come un Dio tutt’altro che «lento all’ira» (cf. Sal 144,1): da Osea, invece, si capisce che sono un modo, arcaico ma anche moderno (si pensi ai normali rimbrotti di un genitore a un figlio recalcitrante), di cercare di scuotere una persona cui si vuol molto bene, perché torni in sé. Dio minaccia e, contemporaneamente, promette a Sion di ri-accoglierla, in una storia che egli ha promesso non finirà mai.
In questa alleanza Israele per secoli ha creduto che la misericordia si manifestasse nella diversa retribuzione che Dio dava nella vita all’operato dei giusti e degli empi: Giobbe, però, non ha creduto più a questo e ha voluto discuterne con gli amici e con Dio, e Dio dà ragione a lui e non ai suoi amici tradizionalisti. Gli chiede di fidarsi di lui, creatore di tutto. Qohelet è ancora più critico, perché ha visto che alla fin fine tutto è un soffio (cf. Qo 1,2), ma anche lui crede che l’unica cosa sia fidarsi di Dio.
Il chiarimento, inaudito, arriva dalle parole di Gesù che reinterpreta la regola aurea, «fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te» (cf. Mt 7,12), dandole un senso pratico sconvolgente per tutti i tempi: comincia tu ad amare i tuoi nemici, a rompere il modo abituale di scambiarsi le cose buone e quelle cattive (regalo con regalo, ferita con ferita, così fanno tutti). E mostrando la misericordia con tale indicazione assolutamente controcorrente nelle relazioni con gli altri, afferma in modo altrettanto netto una motivazione che noi non sopportiamo: «La vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6,35).
La maggior parte dei cristiani da secoli chiede a Dio che punisca i malvagi, non che sia benevolo con loro; che la zizzania sia strappata, non lasciata. Il lector in fabula ha letto per secoli la Parola della Scrittura in modi che oggi percepiamo riduttivi, e ne ha fatto ampiamente strumento di governo imitando gli altri regni del mondo. Gli storici, guardando ai fatti come Jean Delumeau o Adriano Prosperi, e alle idee, alle parole come Michel Foucault, hanno mostrato come il controllo delle coscienze (la paura del peccato e delle punizioni che l’autorità può definire e comminare, inclusa la tortura e la morte) sia stato determinante per il potere spirituale e sociale della chiesa, soprattutto cattolica.
La complessità del messaggio di Gesù, che presenta un Dio che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, si fatica a sopportarla. La parabola del padre e dei suoi due figli è esattamente in questa linea: è un padre insopportabilmente benevolo verso questi due; non è «giusto» nel senso corrente (e secondo il figlio rimasto a casa) del termine. Non rispetta le regole del Talmud che gli impedirebbero di distribuire l’eredità prima della propria morte, è lui che esce per vedere se mai il figlio ritorna, e lo ri-accoglie senza fargli nemmeno un piccolo «processo», un’umanissima sgridata; è di nuovo lui che esce incontro al figlio maggiore, che gli parla in modo sprezzante e non gli dice niente nonostante la sua insolenza infondata. Tuttavia questo è il Padre di cui parla Gesù! E dato che il suo discorso sulla misericordia del Padre è inaudito, è stato modificato, ridotto e irrigidito nei secoli, e non a caso la tradizione ha parlato di questa parabola come del «figliol prodigo» e solo di recente l’ha chiamata la parabola «del padre buono», concentrandosi però sulle regole per ri-accogliere i figli che se ne vanno, cercando di individuare i peccati e le condizioni di pentimento, di misurare le pene. Ma se Dio, invece, riesce a far tornare in sé gli ingrati e i malvagi in modo imperscrutabile, dovremmo essere invidiosi? Potremmo (secondo il nostro modo di ragionare) accusarlo di ingiustizia? Il figlio è un ingrato, ma accetta senza dir nulla il fatto che suo padre non lo riaccolga come servo ma come figlio, e il figlio maggiore non ha un briciolo di gratitudine, pensa da servo e insolentisce suo padre. Finora non abbiamo lasciato spazio alla meraviglia di Giobbe, che non è moderno solo perché sopporta tanto e poi viene premiato, ma perché resta aperto alla fiducia in Dio senza mettergli confini.
È ragionevole che Gesù chieda per tutti al Padre di perdonarci perché non sappiamo quello che facciamo (cf. Lc 23,34)? Affermazioni che vanno comprese in coerenza con tutte le affermazioni di Gesù, che altrimenti vengono sminuite od omesse: a lungo si è rifiutata nei fatti la complessità del suo linguaggio e di tutto il suo atteggiamento, di quello che dice dei «pensieri» del Padre, che non sono i «nostri».
Italo De Sandre