Editoriale
Nel Canto X del Purgatorio Dante attraversa la prima cornice dove espiano la loro pena i superbi, e si trova di fronte alla parete della montagna dove sono scolpiti esempi di umiltà: l’annunciazione (vv. 22-45), la danza di David davanti all’arca (vv. 46-69) e la clemenza di Traiano (vv. 70-96). Ed è in questo peculiare contesto, di fronte a ciò che è scolpito nel biancore del marmo, che il Poeta esclama nei vv. 94-96:
«Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova».
Il «visibile parlare» è una felice espressione coniata per indicare il modo con cui nel tempo ogni cultura ha cercato di affidare all’immagine aspetti e momenti importanti della propria storia. E oggi – come e forse più che in passato – il “parlare” si muove più attraverso il “visibile” che non mediante lo scritto. È la comunicazione visiva quella che si è imposta pressoché ovunque.
Ma in questo contesto del «visibile parlare» si pone lo specifico capitolo offerto e costantemente richiamato anche dalla liturgia. C’è un’estetica liturgica, infatti, che costituisce una componente essenziale del linguaggio cultuale. E la lezione che da essa promana costituisce una pagina quanto mai variegata; una pagina comunque che – riletta nella prospettiva teologica sua propria – diventa parte essenziale di un percorso che include studio, celebrazione e conseguenti scelte di vita.
1. Tra «visibile parlare» e «parola dipinta»
Nel 2002 «Rivista Liturgica» ha ricordato un grande letterato nella rubrica in memoriam: Giovanni Pozzi (cf. «RL» 89/4-5 [2002] 586-591). Nel 1981 egli pubblica un’opera interessante, presso l’editrice Adelphi, dal titolo: La parola dipinta (nuova ediz. riveduta e ampliata Milano 1996, pp. 419). In essa l’autore magistralmente indaga l’intima unione fra parola e immagine ponendosi soprattutto sul versante della poesia. Ma la vicenda dei rapporti fra queste due potenze della mente – di conseguenza fra arte e letteratura – include molte altre vicende, quanto mai complesse: basti pensare ai dipinti che, quasi crittogrammi, nascondono un testo verbale preciso e, a rovescio, alle scritte deposte in composizioni figurative. E fra questi due estremi si colloca un’ampia zona intermedia che coinvolge forme miste quali l’emblema e l’impresa, le illustrazioni di testi letterari concepite o volute dall’autore fino ai numerosi enigmi del simbolismo iconico-poetico. Un insieme di percorsi dunque che contribuiscono a leggere la dimensione comunicativa di una parola “dipinta” con forme e simboli diversificati.
Riprendendo la formula dantesca del «visibile parlare» ancora una volta Pozzi ha esplorato territori nuovi, spesso evitati perché richiedono un’uguale perizia nel seguire le due vie parallele della figura e della parola. Tutto ciò che si pone, infatti, sull’orlo del «visibile parlare» mette in questione la natura stessa dello spazio figurato, là dove coabitano immagini e lettere, entro un sottile contrappunto in cui si tratta di riconoscere il retaggio della storia nell’operare della mente.
Da questa peculiare riflessione e da numerosi altri contributi si muove l’attenzione che «Rivista Liturgica» rivolge al tema generale dell’estetica liturgica, e lo fa in ideale continuità con quanto pubblicato nel 2001 sotto il titolo: Liturgia è bello. Architettura per il culto (cf. «RL» 88/4 [2001]). Tra studi, note e orizzonti le rubriche raccoglievano interessi specifici per porre in evidenza aspetti significativi propri di un’architettura finalizzata al culto, ma soprattutto caratterizzata dal codice della bellezza.
2. Il programma iconografico: per vedere o per celebrare?
La dimensione estetica della liturgia è uno dei punti nodali da affrontare; con essa è necessario confrontarsi ogni volta che si pongono problematiche inerenti alla riforma liturgica, al suo sviluppo e alla sua giusta ricezione.
Il bisogno di riconsiderare l’estetica nasce dalla costitutività della stessa liturgia il cui principio di “visibilità omnicomprensiva” riconduce l’estetica liturgica all’estetica cristiana nella sua basilarità. Nel fenomeno pregnante della visibilità è riconducibile ogni nostra percezione sensibile di Dio. In questa linea si pongono le prospettive del Concilio Niceno II, del Tridentino, del Vaticano II… e di tutte le opere che lungo i secoli hanno cercato di “tradurre” il vero senso dell’estetica nel culto (nel periodo dopo Trento si pensi, per esempio, all’opera del card. Borromeo – Instructionum fabricae… – o a quella del card. Paleotti – Discorso intorno alle immagini sacre e profane –; ma andrebbe considerata pure la musica e il canto…).
È in questo orizzonte, pertanto, che si pone l’interrogativo: come dire alcuni aspetti della lex credendi nella lex orandi quando il verbale può significare fino a un certo punto e i contenuti o l’esperienza della fede in atto esigono un «visibile parlare» che si apra al simbolico, oltre il discorsivo o il descrittivo?
Queste e altre domande sono poste regolarmente quando in ambito progettuale si riflette sul programma iconografico o si è invitati a suggerire orientamenti per un programma iconografico in un’architettura nuova di chiesa, o a dare indicazioni per il programma nel complesso architettonico che viene adeguato alle istanze della riforma conciliare (cf. al riguardo i due documenti della Commissione episcopale per la liturgia sulla costruzione di nuove chiese e sull’adeguamento dell’esistente secondo le direttive della riforma conciliare).
C’è dunque da rispondere a tali attese a partire dal bisogno di bellezza e di poesia che deve trasparire anche dal luogo-spazio orante e contemplativo; un bisogno che va continuamente educato. L’atto del vedere, infatti, non è fine a se stesso, ma costituisce un vero atto religioso, come l’ascolto.
3. Prospettive e intrecci
Se osserviamo la lezione che proviene dalla storia constatiamo che ci è di grande aiuto il patrimonio artistico che attesta la presenza di singolari programmi iconografici. Da essi è possibile ricavare orientamenti preziosi per comprendere l’iconografia. Riteniamo però che sia opportuno andare oltre; e cioè cogliere la valenza mistagogica di tutto questo, diversamente si rimane al livello di un insieme di impressioni che pur stimolate dal codice della bellezza restano elementi isolati e non a servizio di un tutto, che ha come centro l’esperienza del mistero; un’esperienza che ha un prima e un dopo come parte integrante di un durante.
Una della attenzioni da richiamare ci sembra risiedere nella relazione che deve intercorrere in modo intenso tra “programma iconografico” e celebrazione, secondo quell’intreccio che va dall’estetica alla poietica, e che avvolge – o almeno lo dovrebbe – la persona nella sua totalità quando si pone in assemblea orante e celebrante.
Chi opera a servizio di tale codice di bellezza – l’artista, l’architetto… – deve trovarsi in grande sintonia con il liturgista; anzi per tanti aspetti deve porsi in ascolto di colui che ha esperienza della celebrazione non tanto come maestro di cerimonie (ma anche questo aspetto va tenuto presente) quanto come teologo. È nell’ottica di una teologia liturgica, infatti, che anche il codice della bellezza riecheggia con la sua specifica missione a servizio di un orizzonte in cui confluiscono innumerevoli linguaggi. Linguaggi che hanno comunque e sempre la parola di Dio come sorgente e costante termine di riferimento: questa è la fonte primaria e costitutiva di ogni programma iconografico; e a questa deve attingere la spiritualità dell’architetto.
In un dialogo costante tra simili competenze si sviluppa il programma unitario che deve avvolgere in un tutto armonico l’aula centrale, la cappella feriale, le vetrate, il battistero, la penitenzieria e quei luoghi specifici che contribuiscono alla bellezza e alla significatività dell’insieme, mentre al centro di tutto si pongono i principali poli della celebrazione (altare, ambone, sede, croce…).
Un simile dialogo permetterà di evitare alcuni pericoli che possono essere sempre all’orizzonte, e che sono costituiti dall’allegorismo, dal didatticismo, da fittizie simbolizzazioni che disorientano l’attenzione orante del fedele e non contribuiscono al raggiungimento di quella sintesi quale si dovrebbe attuare nell’incontro tra mysterium, actio e vita.
La chiesa edifico risente inevitabilmente della dialettica che deriva dal mistero dell’incarnazione: vivere nella storia ed essere in cammino oltre la storia. Così il nuovo tempio e il culto in spirito e verità che Gesù inaugura (cf. Gv 2 e 4) pongono la chiesa edificio in tensione tra “luogo” e “non luogo”, tra il tempio locale e il tempio personale, tra storia ed eternità. Per questo l’edificio chiesa è ricco di riferimenti escatologici, anzi è simbolo e anticipazione della Gerusalemme del cielo, e allo stesso tempo è incarnato nella città degli uomini. La sua stessa costruzione, gli elementi che la compongono e i percorsi che la strutturano rendono ragione di questa dialettica.
E nel n. 35 dell’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis di Benedetto XVI (22 febbraio 2007) troviamo preziose indicazioni per concludere:
«Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia […] ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il mistero pasquale mediante il quale Cristo attrae a sé e chiama alla comunione. […] Già nella creazione Dio si lascia intravedere nella bellezza e nell’armonia del cosmo. […] Nel Nuovo Testamento si compie definitivamente questa epifania di bellezza nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo: egli è la piena manifestazione della gloria divina. […].
La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza […]. La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria».
Contemplare dunque il mistero nel linguaggio della cultura! L’espressione risuona come invito a prolungare nei segni dell’arte la presenza di un Dio che si è fatto (e continua a farsi) storia attraverso infiniti “segni”. Nella città di Urbino, in una targa apposta sulla casa dov’è nato Raffaello, si legge: «Ludit in humanis divina potentia rebus, et saepe in parvis claudere magna solet». Ci sembra di rileggere nel distico l’afflato di uno sguardo che cerca di fare sintesi tra mondo creato e Dio attraverso la bellezza dell’arte; di un Dio che continua a farsi storia anche con i linguaggi dell’arte.
L’immagine cristiana dell’uomo non è solo udito e ascolto, in contrapposizione all’immagine greca dell’uomo espressa nell’occhio e nella vista. Contrapposizione che viviseziona l’uomo, ponendo steccati e vocabolari di incomprensione. Tale proposta si muove dentro una pedagogia totale e integrale, a cominciare dalla realizzazione di un processo uditivo-visivo che Paul Claudel esprime nella frase l’oeil écoute, l’«occhio ascolta», come l’udito vede.
E come abbiamo iniziato con Dante, con lui si può ancora concludere (Paradiso XXVII, vv. 1-6):
«“Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo”,
cominciò, “gloria!”, tutto ’l paradiso,
sì che m’inebriava il dolce canto.
Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
de l’universo; per che mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso».