II termine di eutanasia, che etimologicamente vuole dire «buona morte», è stato variamente applicato con significati diversi, come liberare un individuo da gravi sofferenze, provocando la morte sia direttamente, sia attraverso la sospensione di trattamenti necessari alla sopravvivenza, sia sopprimendo una vita giudicata non vivibile o inutile come, ad esempio, in un feto malformato. L'eutanasia viene anche distinta in attiva e passiva, a seconda che si richieda un intervento diretto di qualcuno o indiretto per l'omissione di trattamenti richiesti per la sopravvivenza. Infine l'eutanasia viene definita volontaria o involontaria, a seconda che vi sia o no un consenso di chi subisce tale atto. In effetti in alcuni Paesi va legalizzandosi la prassi di un'eutanasia attuata su specifica richiesta o consenso di un malato giunto al suo stadio terminale. In questo caso, facendo leva sul motivo della compassione per un individuo in stato di grave sofferenza, si vuole giustificare o meglio legalizzare l'atto di dare la morte mediante l'impiego di sostanze tossiche o farmaci narcotici o l'interruzione di cure ordinarie.
La deontologia medica internazionale in passato, attraverso vari documenti, ha riaffermato la difesa della vita come il dovere precipuo cui il medico deve attenersi in ogni atto della sua professione. Questo principio è stato affermato con forza nell'insegnamento ippocratico e più volte ribadito con una serie di documenti internazionali (Ginevra, 1948; Helsinki, 1964; Tokyo, 1975), che sono alla base dei codici deontologici delle professioni mediche e infermieristiche, sia a livello internazionale sia nel nostro Paese. In particolare, in Italia, il codice di deontologia medica in tema di assistenza al malato terminale del 1958 afferma che scopo principale del medico deve essere la difesa della vita e, ancora, che un medico non può abbandonare un malato perché ritenuto inguaribile, ma deve assisterlo fino alla fine anche moralmente e spiritualmente. Inoltre nel codice del 1978 si indica che lo scopo esclusivo del medico è la difesa e il recupero della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza. Più specificamente vi si afferma l'obbligo del medico a non abbandonare il malato perché ritenuto inguaribile, ma ad assisterlo anche al solo fine di lenire la sofferenza fisica e psichica, aiutarlo e confortarlo, e a non attuare mezzi atti ad abbreviare la vita, pur se deve limitare la propria opera all'assistenza morale e all'attuazione di terapie palliative. Si afferma ancora che ogni atto mirante a provocare deliberatamente la morte di un paziente è contrario all'etica medica e che per malattie a prognosi infausta e in fase terminale il medico potrà limitarsi all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità della vita che si spegne, proseguendo nella terapia finché ragionevolmente necessario.
Pur tuttavia nel nostro Paese comincia a trovare consensi il principio di autonomia tipico della bioetica anglosassone, secondo cui il paziente deve affermare il diritto di decidere sulla propria morte quando la vita sia giunta al suo termine e non offra più speranze. Si tratta di fatti aneddotici, per il momento, ma rivelano una certa mentalità che si fa strada. E così, in virtù di questo principio, esiste la tendenza da parte di alcuni ad attuare un'eutanasia attiva strisciante, ad esempio attraverso la somministrazione consapevole di dosi elevate di farmaci sedativi di vario tipo, che possono causare arresto cardio-respiratorio, a quei pazienti che lo chiedono espressamente e per i quali sono fallite le cure palliative correttamente impartite. Tale posizione, chiaramente espressa, emerge nella proposta di risoluzione del Parlamento Europeo del 1991, avente per oggetto l'assistenza ai pazienti terminali e in cui, in particolare, si auspicano la promozione e il miglioramento dei metodi specifici per le cure palliative. Infatti al punto 8 del documento si afferma che, in assenza di qual-siasi terapia curativa e dopo il fallimento delle cure palliative correttamente impartite, si debba soddisfare il desiderio del paziente pienamente cosciente che chiede in modo insistente e continuativo che sia fatta cessare la sua esistenza. In questo punto viene sollecitata, pur senza menzionarla, l'eutanasia attiva.
Il Comitato Nazionale di Bioetica, pur trovandosi d'accordo con le altre parti della proposta del Parlamento Europeo, ha rifiutato la posizione espressa nel punto 8 e ha auspicato la creazione di centri per le cure palliative, che offrano un sistema di intervento costituito da assistenza domiciliare, da servizi di consultazione e da modelli di assistenza integrata fra ospedale e domicilio. In questo modo è possibile sostenere la posizione del medico nel suo delicato lavoro e nelle sue decisioni terapeutiche e lo stesso paziente, che, proprio per lo stato di sofferenza fisica e psichica in cui si trova, difficilmente potrà esprimere con lucidità e totale consapevolezza la propria volontà. D'altro canto si può egualmente assicurare a un paziente in fase terminale una morte dignitosa quando vengono continuate le cure ordinarie e l'impiego di analgesici viene fatto in dosi adeguate con lo scopo principale di lenire il dolore, anche se ciò può compromettere lo stato di coscienza e favorire senza alcuna intenzione l'accorciamento della vita.
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