Le lacrime di Giacobbe, di Esaù o di Giuseppe, quelle dei profeti stimolano a riflettere sulla gamma di emozioni che esse significano, dalla disperazione alla gioia, dalla rivolta alla compassione. Ma la questione fondamentale che esse sollevano è quella della natura dell'uomo, questo essere che dovrebbe portare in sé l'immagine di Dio, e che pure è capace di lacrime, sollevando in tal modo interrogativi sulla sua fragilità costitutiva. La tradizione orale dell'ebraismo non esita a contravvenire all'interdetto della rappresentazione di Dio evocando le sue lacrime. Su chi e su che cosa piange l'Eterno? Analizzando le risposte della tradizione ebraica, l'autrice mostra come esse si colleghino con un pensiero orientato verso la vita condivisa.
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
L’attenzione che i lettori delle Scritture ebraiche riservano ai significati spirituali, morali e intellettuali di quelle pagine millenarie – e tanto a lungo meditate, commentate e interpretate, secondo i registri aperti dalle diverse modalità di sollecitazione del “poter dire” della lettera ebraica – ha spesso indotto a sottovalutarne le potenzialità affettive che pure sono tanto profonde e decisive nel loro fervore o nella loro dolcezza. Certo, i Salmi sembrano immuni da questa dimenticanza o negligenza, dato il registro emotivo e anche appassionato che li caratterizza e che, dalla collera alla compassione, dalla prostrazione alla gioia, dalla disperazione alla speranza, dall’odio all’amore, fa intendere la voce dell’intera gamma dei sentimenti umani. La loro lettura si pone d’altra parte in vivo contrasto con i testi del Pentateuco così riservati, laconici, o anche del tutto silenziosi, rispetto ai sentimenti e alle emozioni delle persone più significative con cui l’Eterno stabilisce l’Alleanza, il che tuttavia non significa che esse siano incapaci di sentimenti. I Salmi però, come tanti testi profetici, sono tutto sommato incontestabilmente più ricchi nell’espressione dell’affettività umana, con le sue sfumature e i suoi eccessi, nell’ardore del suo desiderio come nella sua apparente rassegnazione all’ineluttabile.
È forse per questo che la loro lettura, anche se quotidiana nella liturgia ebraica, appare spesso, per i saggi, come una semplice propedeutica allo studio di ciò che solo conta veramente – il Talmúd, che esige una lunga pazienza nelle sue discussioni più sottili per risolvere questioni decisive e scottanti – e non è mai considerato, in ogni caso, un fine a se stesso? La figura dell’“ebreo dei Salmi” è, infatti, spesso assimilata a quella dell’uomo poco istruito, o anche ignorante, che apprezza la storia sacra, e la sua personale in seno a tale storia, prevalentemente secondo un prisma emozionale poco adatto al pensiero e allo studio. I Salmi sono anche una lettura raccomandata alle donne, considerate più sensibili alla loro energia emozionale che non gli uomini, ritenuti più portati alla comprensione dei ragionamenti complessi proposti dai saggi del Talmúd. Tuttavia, nonostante questo primato riconosciuto all’intelletto sulle emozioni e l’evidente connotazione dispregiativa che si avverte nei confronti degli individui sensibili ai sentimenti, a volte giudicati persino incapaci di un vero sforzo di pensiero, e ai quali i Salmi sono affidati perché vi trovino un’espressione spirituale delle loro aspirazioni, del loro sconforto o della loro speranza, esistono anche bellissimi e notevolissimi commentari del salterio per opera dei saggi. Essi si sforzano, infatti, di arricchirne il senso a partire da un’interrogazione rigorosa della sua lettera senza confinare il campo delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni nella pura irrazionalità, o anche, al modo stoico, in un pàthos che dovrebbe essere superato con la ragione e il consenso a ciò che è o avviene, al fine di raggiungere la serenità, oltre il dolore, e anche oltre la gioia.
L’insorgere in sé delle emozioni, con la loro forza segretamente o apertamente destabilizzante, eccede l’ordine saggio e ragionato di un discorso concettuale preoccupato di conservare il controllo in ogni circostanza. L’uomo ragionevole cerca, si dice, di non lasciarsi sorprendere dal tumulto che esse provocano, anche se tale tumulto dovesse per un istante rendere più acuta la percezione del reale. Nella maggior parte dei casi, infatti, tale percezione trascende le capacità dell’attività mentale cosciente a render conto, chiaramente e distintamente, di ciò che in essa avviene: basta per questo che un frammento del passato risusciti improvvisamente in sé, alla maniera di Proust, in un odore, un sapore o una frase musicale, facendo tremare di gioia o di angoscia, senza che se ne capisca assolutamente il motivo; o che il presentimento, ma anche l’intrusione improvvisa di una sventura temuta o di una felicità a lungo attesa investa questo psichismo senza lasciargli il tempo della riflessività esponendolo al terrore e al mutismo, allo sgomento o, al contrario, alla timidezza di fronte ad una gioia finalmente percettibile, in prossimità del suo consenso, e a volte anche della sua esaltazione.
All’insaputa della coscienza e in modo irriducibile al discorso della scienza, il corpo dice come le emozioni abitino l’uomo, e come gli insegnino una verità su se stesso e sul suo destino. In una creazione il cui senso e la cui finalità restano per molti enigmatici, nonostante il prestigio della sua capacità scientifica e tecnica, esse sostengono la causa di un al di là del concetto, il che non significa un al di là del significato e dell’intelligenza. Non intendiamo con ciò sostenere, nelle pagine seguenti, la causa dell’emozione contro il concetto, e ancor meno del corpo contro lo spirito, essendo del resto tale distinzione del tutto estranea alla Bibbia, ma interrogarci sui significati e sull’intelligenza verso cui orienta la capacità emozionale del corpo umano. A prima vista la prospettiva scelta può sembrare unilaterale in quanto, per lo più, le lacrime sono esclusivamente associate a sentimenti negativi, alle emozioni e a passioni prodotte dalla sofferenza, dalla miseria e dal lutto, a quella tristezza amplificata dall’immaginario che, secondo Spinoza, si accompagna inevitabilmente ad una diminuzione dell’essere. Ma se la massima del filosofo – «Né ridere né piangere ma capire» – oppone il riso al pianto, la sua intenzione è di rifiutare entrambi gli atteggiamenti con uguale forza, come se queste due manifestazioni sensibili, visibili all’altro, dell’emozione interiore che sconvolge una persona dovessero essere bandite come altrettanti segni di un’assenza di comprensione della realtà, come altrettante prove di una mancanza di saggezza.
Il saggio infatti, secondo Spinoza, non cede mai alla violenza o alla dolcezza delle emozioni, cerca solo di capire. «L’assoluta virtù della mente è comprendere»1, sostiene egli con forza, e non sembra dunque che la gioia da lui annunciata al termine della deduzione ragionata delle proposizioni dell’Etica debba accompagnarsi al riso o al pianto. La gioia spinoziana resta estranea agli affetti, rimanendo quindi invisibile per quanti cercano, tramite lo sguardo sensibile, di percepirne alcuni segni esteriori. Il filosofo rifiuterebbe dunque, come incompatibili con la conoscenza della verità, le parole del Memoriale di Pascal: «Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto. Gioia, Gioia, Gioia, lacrime di gioia».