Editoriale
2 Giorgio Bonaccorso
I riti ci cambiano a modo loro
Studi
4 A ndrea Bozzolo
L’eucaristia: una cristologia celebrata
9 Franca Feliziani Kannheiser
Riti e identità
15 E nrico Parolari
Quando celebri non puoi più nasconderti
20 Fabio Trudu
L’abito fa il monaco, almeno un po’
25 Gianluca Zurra
La messa è “di” qualcuno?
30 Massimo Maffioletti
Messe per età diverse?
36 S ilvano Sirboni
Fuori programma
41 Maria Teresa Zattoni
Prove di umanità in seminario
47 Bruno Bignami
«Ringraziamo le autorità al primo banco»
53 Paola Bignardi
Cosa succede se non succede nulla?
Formazione
58 Paolo Alliata
Non come muti spettatori
2. Mettere mano a ricchezze nascoste
Asterischi
63 Pasquale Bua
Gesti e parole
3. L’unzione post-battesimale
67 A nselmo Morandi
Gesti e parole
4. La Preghiera di ordinazione presbiterale
Chiacchiere di sacres tia
71 Manuel Belli
Preti italiani e suore francesi
Giorgio Bonaccorso
I riti ci cambiano a modo loro
Il rito circola negli ambiti più reconditi
degli individui e dei gruppi molto
al di là della consapevolezza che ognuno
di noi ne può avere. Ciò significa
che i riti ci hanno già cambiato e molto
prima che noi decidessimo di cambiare.
Si tratta di quei comportamenti
che con i loro “ritmi” interni, animano
la nostra vita, ossia le nostre azioni, le
nostre percezioni, i nostri sentimenti e
anche i nostri pensieri.
Non si tratta solo di “riti religiosi”,
ma, resta vero che, in tutte le popolazioni
del pianeta, i comportamenti rituali
sono stati associati anche alla religione.
Anche i riti religiosi, così come i
loro cugini profani, tendono a cambiare
gli individui e i gruppi.
Ma perché allora noi abbiamo spesso
l’impressione che dopo una celebrazione
liturgica non sia cambiato nulla?
Perché ne constatiamo l’inefficacia e
addirittura l’inconsistenza? Non è forse
perché proprio quando li filtriamo
attraverso il nostro controllo, per ottenere
dei mutamenti, perdono la loro
efficacia e la loro consistenza? Se ti
chiedi come ti cambiano i riti, la prima
cosa da tener presente è che i riti
non ti cambiano come vuoi tu. Non
sono strumenti di un progetto, sia pure
teologico, pastorale, catechetico. Più
l’individuo, la comunità e la chiesa trasformano
i riti in strumenti e più essi
risulteranno incapaci di trasformare
l’individuo, la comunità, la chiesa. Non
avranno più nulla di sorprendente perché
sottoposti a un controllo che non
accetta sorprese, non saranno più efficaci
perché gestiti da un progetto che
ha già deciso quale debba essere la loro
efficacia.
L’interrogativo è rivolto a te individuo,
a te comunità, a te chiesa: «Come
ti cambiano i riti?». I riti ti cambiano
a loro modo. E lo fanno con i loro
ritmi, le loro emozioni, le loro danze,
i loro profumi, le loro immagini, i loro
gesti. Se estrometti dai riti molte di
queste azioni e di questi linguaggi, i riti
non rispondono più, non esistono più,
e certamente non ti cambiano. Se ci si
libera dalla sindrome del controllo i riti
possono operare cambiamenti anche
sorprendenti: cambiano gli individui, le
comunità, la chiesa; possono cambiare
anche le rubriche.
Una questione sempre aperta è quella
del rapporto tra la liturgia e le emozioni.
Indubbiamente le emozioni possono
talvolta attentare alla vita, ma senza
emozioni con c’è vita. E così senza emozioni non c’è rito. Le emozioni e i
sensi sono alleati della fede e della liturgia,
della religione e del rito. Il rito è
un modo di sentire e, quindi, non può
che avvalersi dei sensi e delle emozioni.
Solo così sono quell’esplosione estetica,
quell’esplosione dei sensi che ti
cambia e che ti rende “sensibile” a quel
Dio che si è reso prossimo. Il fatto che
Dio trascende i sensi ci ha portato a
fare riti anestetici, invece di seguire le
tracce del Dio che ha sposato il mistero
col sentimento e che ha celebrato il
rito della sua passione, morte e risurrezione.
Ma come può un rito che celebra
la passione essere senza passioni?
La liturgia ha un fondamento cristologico
non perché nel rito si parla di
Cristo e della sua passione, ma perché
in essa le nostre passioni si aprono alla
sua passione: ciò attraverso parole, gesti,
immagini che suscitano “passione”.
In tal modo si realizza sensibilmente
la conformazione a Cristo. Se c’è un
motivo che giustifica l’esistenza della
liturgia è proprio il fatto che la fede
non consiste nel credere in Cristo ma
nell’essere in Cristo e quindi nella forza
che fa sentire l’appartenenza a Cristo
e la conformazione a Cristo. Il che
cosa si celebra è quindi indisgiungibile
dal come si celebra, e il come si celebra
si qualifica nella modalità dell’esporsi
personalmente alla vicenda cristologica.
L’aspetto decisivo è dato infatti
dalla disponibilità ad esporsi a Cristo
nel rito: ossia a non nascondersi dietro
le parole e rimanere indifferente, ma
a lasciarsi trasportare da Cristo nel rito.
Ma ciò non può avvenire se si tralasciano
i codici operativi che appartengono
ai riti e che sono riscontrabili
ovunque a livello culturale e in parte
anche biologico.
Indubbiamente rimangono aperte
molte questioni sul ruolo dei componenti
dell’assemblea liturgica, dei ministri,
delle età, delle propensioni personali.
Bisognerebbe chiedersi, però,
se molte di tali questioni avrebbero
ugualmente tanto peso se si iniziasse
a imparare dal rito per poter celebrare
un rito.
Il rito non esiste in un iperuranio
indipendente: è sempre qualcosa fatto
dagli esseri umani. La questione è
che, quando lo si definisce in questo
modo, non si intende ricondurre il rito
alla progettazione umana, ossia ad
una costruzione consapevole. Si intende
piuttosto dire che il rito è un insieme
di azioni umane che vanno ben
oltre il pensiero concettuale degli esseri
umani. Quindi imparare dal rito
per celebrare il rito non significa altro
che imparare da come il rito si inscrive
nelle trame delle azioni umane. Ed
è proprio su questo punto che emerge
l’ampio investimento di energie umane,
come suoni, gesti, parole, immagini,
spazi, tempi, emozioni, sentimenti. La
razionalità (etica, filosofica, teologica)
deve aiutare ad evitare deviazioni, non
a reprimere quelle sensazioni ed emozioni
che fanno del rito un’esperienza
viva e vivace.