Frisina dichiara che si tratta di un «oratorio» (in copertina è indicato come «oratorio sacro»). “Oratorio” forse per la coralità (un po’ tutta simile) delle voci oranti nel coro, alternate da quelle recitanti, o per il luogo della sua esecuzione (dove si prega, l’oratorio o l’assemblea orante)? O musicalmente forse per qualche tentativo di rievocare una tradizione con qualche fuga strumentale (nel III e V quadro), “contro fugata” da parole che nel loro recitarsi si appendono a se stesse e in verità suscitano un benevolo sorriso per il loro tentativo di dire e di lanciarsi con il loro significante oltre il loro significato pur di significare qualcosa?!
Le parti corali sono quelle che potranno più piacere ad alcuni parroci o operatori pastorali (pur essendo questo un oratorio “sacro” e non “per la liturgia”) perché potranno intravedere la possibilità di fare di quella piccola grande liturgia domenicale una grande scena liturgica che evoca incontri mondiali e scenari di eventi papali o di quell’ecclesialità televisiva che fa sentire cattolici (nel booklet si annota che «Frisina ha composto appositamente ed eseguito, dinanzi al Papa Giovanni Paolo II, 23 oratori»).
Il testo riprende espressioni dell’autobiografica cristologica di Paolo secondo le sue lettere; a volte le parafrasa, altre volte le tematizza in formule autoeulogiche di e per Paolo. I testi sono corali o, in alcuni dei 12 quadri che compongono l’oratorio, sono dialogati. Quelli corali sono dogmatici, quelli dialogati testimonianze narrative dei singoli personaggi (Paolo, Stefano, un discepolo, i giudei). La recitazione (soprattutto quella di Paolo) è quella di una scena filmica senza immagini. Appesantita da una vocalità di lettura molto drammatizzata. Con timbri arcaici. Come se soltanto in questo modo si possa dire cose vere o esprimere la fede.
«L’oratorio termina con una marcia [molto andante e processionale] che sembra scandire i passi dell’Apostolo verso la sua missione definitiva con Cristo e che termina con il tono trionfale di un inno di lode» (Frisina) di molto effetto e coinvolgimento emotivo.
Il compositore risente delle ultime esperienze musicali? Della Divina Commedia e de Le Storie della Bibbia? O forse, ascoltando questa musica non possiamo che dire: è Frisina! Piace a chi piace, ma forse la funzione di questa musica è nella misura in cui permette autenticamente a ognuno di pregare e di «esprimere autenticamente la fede [di chi la canta e] di chi la scrive. La sincerità del compositore qui è d’obbligo perché secondo me il problema più grave è soprattutto l’assenza di autentica musica sacra fuori della liturgia. […]. La musica liturgica ne avrebbe sicuramente un grandissimo giovamento perché potrebbe interpretare tutto questo purificandolo e semplificandolo divenendo autentica sintesi della fede del mondo dinanzi a Dio» (M. Frisina). Nell’intervista pubblicata sulla rivista «Colonne sonore» (n. 15) (www.marcofrisina.com [21.9.2009]) veniva chiesto a mons. Frisina se «c’è differenza nell’affrontare le composizioni liturgiche e le colonne sonore». La sua risposta: «Cinema e liturgia sono “generi” diversi, ma il lavoro è lo stesso... Certo la liturgia è strettamente canonica, con strutture vincolanti, ma una cosa che ha in comune col cinema è l’idea di partecipazione, quello che noi suoniamo e cantiamo ci fa concentrare su ciò che non si può vedere, e la musica ci aiuta in tal senso, anche se a livelli molto diversi. Quindi nella liturgia il grande spettatore è proprio l’assemblea, che non è passiva ma attiva». C’è coerenza? questa musica è per un’assemblea ritenuta spettatrice attiva, ma non dovrebbe invece praticare un’actuosa participatio anche nel e con il canto?
Questo modo di fare musica sacra (che poi qualcuno mimetizza per “liturgica”) evoca quanto Agostino si augurava: «L’uomo nuovo sa [dovrebbe sapere] qual è il cantico nuovo» (Sermo 34,1). Se il cantico non è “nuovo”, l’uomo non è che la resa di una tradizione estinta, che se non canta in modo “nuovo” non è un vir novus, pur nella novità dei mezzi e di certi linguaggi. Perché quella “novità virile” dovrebbe formarsi e dovrebbe nutrirsi nella liturgia. Anche, soprattutto e specialmente con il canto e la musica. Qual è la novità di questa musica e di questo canto che può farci prendere coscienza di dover essere sempre ancor più nuovi? Qui la novità è confusa con la riduzione della portata del canto liturgico e anche sacro all’umano per scoprirvi il divino ma senza che si elevi e aneli a Dio?
Tratto da "Letteratura liturgica" n. 5/2009 della "Rivista liturgica"
(http://www.rivistaliturgica.it)
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