Mistica degli occhi aperti
-Per una spiritualità concreta e responsabile
(Giornale di teologia)EAN 9788839908636
Quella della fede cristiana non è una mistica “naturale”, senza un volto. È una mistica ben caratterizzata dal senso della giustizia e della solidarietà: una mistica “estroversa”, che cerca il volto del fratello/sorella, che porta all’incontro con l’altro sofferente, l’altro infelice, l’altro vittima. Per alimentare una spiritualità responsabile, efficace, concreta. «Se i cristiani sono sempre anche dei mistici», insegna Metz, «sono mistici nel senso di una spirituale esperienza di solidarietà. Sono prima di tutto “mistici con gli occhi aperti”».
Tratto dalla rivista Concilium n. 3/2013
(http://www.queriniana.it/rivista/concilium/991)
Il volume di Johann Baptist Metz, edito dalla Queriniana nella collana «Giornale di teologia», rappresenta una lettura provocante e stimolante per l’istanza propositivamente critica e, allo stesso tempo, per l’indicazione di possibili itinerari percorribili dall’attuale indagine teologica. Il discepolo di Karl Rahner articola la sua riflessione mettendo al centro la componente politica, etica e sociale del discorso teologico – coerentemente con l’obiettivo alluso dal sottotitolo al volume stesso Per una spiritualità concreta e responsabile – a partire da una «mistica degli occhi aperti».
Lo sguardo credente costituisce, infatti, nel lavoro del teologo tedesco, la prospettiva entro la quale elaborare una teologia capace di superare la dicotomia tra fede e vita, sollecitando una mistica – quale attitudine di ogni cristiano – non solipsistica ma, come deve essere, solidale e protesa all’incontro del volto altrui, particolarmente del volto di chi soffre. In questa direzione dello sguardo trova spazio e concretezza la ricerca della giustizia propria della fede cristiana e, insieme, il suo potenziale rivoluzionario. Il libro, che raccoglie contributi già pubblicati e inediti, si articola in tre sezioni: la prima parte (Prospettive teologiche, pp. 9-50) delinea le prospettive teologiche da cui si sviluppa una mistica degli occhi aperti; la seconda parte (Mistica del volto.
Tentativi di approssimazione, pp. 51-214) entra nel vivo della riflessione teologica mettendo a fuoco soprattutto la questione della teodicea e della sofferenza, in un tentativo di progressiva approssimazione a una «mistica del volto»; la terza parte (Una chiesa restia all’apprendimento, pp. 215-252), riprendendo gli stimoli offerti dal concilio Vaticano II, si interroga sul cammino della chiesa postconciliare. L’urgenza della questione della giustizia di Dio (pp. 13-24) attiene, secondo Metz, al profilo messianico della spiritualità cristiana ossia alla sensibilità messianica di Gesú di fronte alla sofferenza, alla compassione-passione di Dio: è questo l’alveo di una «mistica della compassione» quale esperienza di solidarietà, una «mistica degli occhi aperti» che è ricerca del volto dell’altro che soffre. È mistica e politica ed esige che venga recuperato l’autentico pensiero apocalittico cristiano (pp. 25-33) nella dimensione della «veglia», dell’attesa come germe di speranza nell’esperienza della storia.
La memoria di Gesú diventa, in questo senso, «pericolosa»: «una memoria che ci rende liberi di prestare attenzione alle sofferenze e alle speranze del passato, di accettare la sfida dei morti, di non smarrire la solidarietà con coloro ai quali domani apparterremo anche noi e per i quali una società fiduciosa nella pianificazione e progressista, alla fine, ha solo imbarazzo, scetticismo o dimenticanza» (p. 33). In quest’ottica una «mistica politica» (pp. 34-41) è capace di riassorbire i «profili di paura» del cristianesimo attuale rispetto al pluralismo religioso e al mondo secolarizzato (pp. 42-49) e di decifrare con gli occhi aperti «la storia dell’uomo come storia di passione» (p. 49). Tale mistica è anche, allora, una «mistica del volto», ossia dell’incontro. Metz ne ricerca le tracce attraverso «quattro stazioni» da lui stesso indicate (p. 53): «tracce di una mistica del volto nel mondo della nostra vita (pp. 52-106), nella preghiera dei credenti (pp. 107-174), nel mondo di pensiero della cristo-logia (pp. 175-187) e, alla fine, nell’incontro con il volto di un teologo, Karl Rahner (pp. 189-213)».
Il teologo tedesco richiama a un particolare esercizio del vedere proprio del cristianesimo, quale contributo a un’etica della convivialità e a una cultura della sensibilità, in cui gli «occhi aperti sul dolore» (p. 63) sono capaci di cogliere la relazione tra la passione di Cristo e la storia di passione degli uomini. La mistica del volto si configura, dunque, anche come mistica cristiana della passione, attenzione a togliere da una «lontananza anonima» (p. 76) il volto dell’altro che soffre, anche il volto del nemico, spezzando il circuito diabolico della violenza. «La nostra fede in Dio – scrive Metz – non è una fede a occhi chiusi, ma una fede a occhi aperti, faccia a faccia. Nella nostra dedizione a Dio il prossimo non resta “fuori dalla porta”» (p. 92). La preghiera stessa esige degli «occhi aperti»: essa diventa quel «coraggio dell’interruzione» (p. 133) che è frutto dello Spirito e che si oppone alla fuga dal dolore e dai suoi appelli e che assume il linguaggio orante come linguaggio dell’umanità, includendo anche l’invocazione del non credente (pp. 172-174).
La storia di Gesú, accolta quale «storia messianica nella forma della storia della passione» (p. 139), nell’avvicinamento al Figlio dell’uomo sofferente, permette di ricomprendere il peso apocalittico della nostra fede nella prospettiva della speranza pasquale, della speranza per i morti. La sequela stessa di Cristo, nella memoria passionis, si fa mistica e politica, presupponendo «occhi aperti», il riconoscimento di una responsabilità per la quale «non c’è sofferenza nel mondo che non ci riguardi» (p. 182). In questa prospettiva, l’A. invita a non sottovalutare il «linguaggio del Sabato Santo» (pp. 184-187), capace di veicolare l’attesa e la mancanza e di essere attendibile dinanzi al dubbio. La proposta di Metz ha come retroterra la riflessione teologica di Karl Rahner, del quale traccia un intenso ritratto a conclusione della seconda sezione del suo volume, quasi a rinviare all’ispirazione sorgiva della propria indagine.
La svolta antropologica e l’esposizione della teologia alle vitali questioni della modernità (p. 191) preludono a una mistica fondata sull’intreccio tra amore di Dio e amore del prossimo (p. 195) come istanza critica, aperta al mistero e nel contempo rivoluzionaria: «per Rahner la mistica della persona, che si pone nella sequela di Gesú povero e sofferente, può essere soltanto questa: mistica di Dio in opposizione a un mondo in cui gli uomini vivono come se non fossero uomini e nel quale i volti umani sono distrutti etsi Deus non daretur» L’incontro tra mondo della vita e mondo della fede e l’apertura a «un protagonismo piú allargato dei credenti» (p. 235) rappresentano per il teologo tedesco l’impulso assolutamente da recuperare dal concilio Vaticano II in vista di una chiesa mondiale policentrica che esige, vitalmente, il riconoscimento degli altri.
L’incalzante riflessione di Metz consegna al lettore un auspicio e un’urgenza: quella di un cristianesimo sempre piú consapevole della storia dell’uomo e della fede e di cristiani dagli occhi «nuovi», vigilanti nell’intus-legere e profetici, liberati e liberanti, che scrutino le vie di una «rivolta della speranza» (p. 238).
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 3/2013
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
Discepolo di Karl Rahner e capostipite della cosiddetta “teologia politica”, Johann Baptist Metz si propone in questo libro di intervenire nel dibattito sul senso e sul significato della e delle “spiritualità”, mettendo ordine nella confusione che sembra regnare sovrana a livello epistemologico, teologico, pastorale. Con la proposta di una “mistica degli occhi aperti”, scrive egli stesso nell’introduzione al volume, «non mi prefiggo soltanto di delineare un profilo irrinunciabile della spiritualità cristiana, ma voglio entrare anche nelle attuali discussioni critiche su Dio e la Chiesa, sulle religioni e sui mondi secolari» (p. 5).
Con l’espressione che dà il titolo al testo (espressione che Metz utilizza da decenni nel suo insegnamento e nella sua produzione teologica), l’Autore intende sanare la frattura che esiste tra fede e vita concreta, tra fede e ragione, tra il credere dogmaticamente inteso e l’esperienza di vita.
Il libro si compone di tre sezioni. La prima, composta espressamente ex novo, è dedicata alle “prospettive teologiche”, cioè al fondamento dell’impostazione che Metz intende proporre: una spiritualità alimentata dalla teologia, non una spiritualità “tranquillizzante”, ma una spiritualità che “si risveglia” e “sollecita a ripartire”.
Nella seconda parte, che raccoglie per lo più articoli apparsi in tedesco negli anni precedenti, il teologo bavarese lascia spazio a “tentativi di approssimazione” a una “mistica degli occhi aperti”. Particolarmente stimolante l’excursus biblico (per quanto estremamente sintetico) sulle espressioni che indicano “vigilare”, “vegliare”, “aprire gli occhi”. La collezione di articoli dà l’idea di un cammino pedagogico progressivo, perché si giunge ad esempio alla necessità di “affinare lo sguardo” per riconoscere il volto di Dio e per accorgersi del volto dei poveri. Non mancano, a questo proposito, accenti critici fortissimi anche a proposito della teologia cristiana: «perché essa vede così poco e presta così poco ascolto alla storia di dolore degli uomini? È indizio di una fede particolarmente forte? Oppure è forse l’espressione di un pensiero della realtà che è staccato dalle situazioni e dagli uomini, è forse soltanto una sorta di idealismo senza volti che si è dotato di un elevato contenuto di apatia di fronte alle catastrofi e ai naufragi degli altri?» (p. 81; ma una critica simile è rivolta ad esempio alla psicoanalisi: cf p. 102). La prospettiva ermeneutica è sempre fortemente esistenziale e concreta:
«non si deve parlare di “un” essere in cammino, ma del “mio” essere in cammino, e questo non già per parlare di me, ma di Dio e della traccia della promessa biblica nella mia vita» (p. 97). La stessa dimensione esistenziale è rintracciabile nella definizione data della preghiera, vista come un assenso, come un “sì” non a partire da una fiducia incrollabile, ma a partire dalla difficoltà, dall’esperienza della finitezza, del dolore e della morte. Anche a questo proposito il linguaggio di Metz è ricco di provocazioni: «forse noi cristiani abbiamo troppo spesso destato l’impressione che la nostra religione conosce un’eccedenza di risposte e, corrispondentemente, una mancanza di domande appassionate. Ma neppure il cristianesimo è soltanto una religione di risposta! E la preghiera cristiana non è un gioco di domanda e risposta! Basta solamente guardare allo stesso Gesù ed alla sua preghiera» (p. 121). Lo stile provocatorio di Metz, presente in ogni pagina del libro, non è un mero artificio retorico, ma una linea ermeneutica coerente, che gli consente di cogliere – anche attraverso il paradosso – alcune verità lapalissiane, o altre verità di fede dimenticate o fraintese. Valga un esempio fra tanti possibili: «Vivere la Pasqua significa entrare in questa povertà di Gesù. (…) Soltanto così si può raggiungere l’identità cristiana, l’identità pasquale! Soltanto così noi possiamo metterci dalla parte della sua nuova vita. Su un’antica pietra tombale questa legge della Pasqua, del “passaggio” dalla morte alla vita, è espressa con queste parole: “Si può portare con sé soltanto quello che non si possiede più”. Ma nel frattempo non abbiamo posto anche noi la nostra anima sotto la dittatura dell’avere e del possedere? Non la consideriamo una proprietà privata che custodiamo con timore? Non la salvaguardiamo con attenzione, affinché venga risparmiata da ogni delusione e ferita?» (pp. 152-153). Ancor più provocatoria, ma ricca di senso, la sua risposta negativa alla domanda se Gesù era felice: il grido relativo all’abbandono del Padre nel Getsemani è indicativo al riguardo; nel Nuovo Testamento, significativamente, non ricorre il sostantivo greco che esprime la felicità (eudaimonia), e l’Israele biblico rimane una «terra di grida» (Nelly Sachs), al punto che l’intero canone termina con un grido: «Vieni, Signore Gesù» (cf pp. 164-165). È importante rimanere vigilanti, “con gli occhi aperti”, essere in cammino, in ricerca… La seconda parte, non a caso, prima di rendere un omaggio a Karl Rahner, maestro e “padre nella fede”, si conclude con un invito a lasciar risuonare la domanda che è in noi: «È importante far vedere che la religione cristiana non esiste per rispondere a tutte le nostre domande, ma per non far dimenticare le domande a cui non riusciamo a rispondere» (p. 186). E, immaginando di trovarsi di fronte un ipotetico interlocutore, personificazione della teodicea, che gli presenta un’obiezione («Signor Metz, Lei mi ha posto troppe domande…»), l’Autore risponde, con profonda coerenza: «Le prenda come espressione della mia fiduciosa impazienza con Dio» (p. 187).
Si passa così alla terza sezione, che già dal titolo («Una Chiesa restia all’apprendimento») promette di mantenersi fedele all’istanza critica delle parti precedenti. Tuttavia la sezione, scritta nel 1991, con un taglio più storico e pastorale, caratterizzata da uno sguardo su come la Chiesa ha recepito il Vaticano II e si ricollega alla Chiesa delle origini, è quella che appare maggiormente datata e meno rilevante all’interno del percorso.
In sintesi, un libro fondamentale, accattivante, di facile lettura che, fedele agli intenti dell’Autore, invita a riflettere, a camminare su sentieri non scontati e suscita domande che nutrono e fortificano il percorso della fede.
Tratto dalla Rivista di Vita Spirituale n. 4-5/2014
(http://www.vitaspirituale.it)
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