Cronache 1-2
-Nuova versione, introduzione e commento
(I libri biblici) [Con sovraccoperta stampata]EAN 9788831539517
Dopo il commento sui Salmi, inserito nella medesima collana – uscito nel 2000 e giunto alla quinta edizione (2008) – Tiziano Lorenzin si cimenta in questa nuova fatica con passione e acribia. Ha scelto l’ultimo libro del canone ebraico, punto di passaggio anche nel suo ultimo versetto (2Cr 36,23) che contiene una specie di messaggio «in codice», un’opera poco commentata in passato, e considerata spesso solo in parallelo con i libri di Samuele e dei Re.
In realtà, i due libri delle Cronache, che vanno da Adamo fino all’editto di Ciro, che pone fine all’esilio babilonese – ripercorrendo dunque l’arco che va dal Pentateuco alla storiografia deuteronomistica – hanno una loro personalità ben definita. L’A. affronta il testo cercando di coglierne l’impianto globale, secondo l’analisi letteraria – sincronica e canonica – prima che storico-critica, e di inserirlo nel contesto sociologico e letterario per coglierne lo scopo. Seguendo il progetto della collana, il volume si compone di tre sezioni: introduttiva, esegetica (traduzione e commento), teologica, che comprende le linee principali del messaggio, ma anche il legame del libro con il Nuovo Testamento e le sue interpretazioni; a questo libro si ispira per le genealogie anche il Vangelo di Matteo, che inizia con la «genealogia di Gesú Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).
L’opera si conclude con un lessico biblico-teologico e la bibliografia divisa in due parti: una selezione ragionata di commentari e studi e la raccolta degli autori citati. Infine, l’indice generale è preceduto da quattro indici: autori, nomi e cose, citazioni bibliche ed extrabibliche, filologico. Nella sezione introduttiva, Profilo storico-letterario di 1-2Cronache, l’A. giunge alle seguenti conclusioni. 1) L’unità del libro, perciò da considerare «opera letteraria» frutto della mano di un letterato raffinato. Perciò, l’intenzione del Cronista è sostanzialmente la stessa del libro come si presenta nella sua forma canonica. 2) L’autore di 1-2Cronache non è lo stesso di Esdra-Neemia. L’ambiente e la data, in cui è collocato il libro del Cronista, è quello del tempio, verso la metà del II secolo a.C., dopo la crisi maccabaica (in consonanza con autori recenti come Steins e Nodet).
Una delle ragioni principali è la seguente: alla base di 1-2Cronache è la forma di 1-2Samuele – 1-2Re, ma talora in consonanza, per alcune variazioni, piú con il testo della LXX e di Qumran (4QSama) che con il TM di 1-2Samuele; le variazioni si spiegano come frutto del processo o metodo esegetico ed ermeneutico giudaico dell’analogia scritturale (Gezerah Shawah: assicura la relazione con il testo base mediante l’idea di una partecipazione reciproca dei testi a un medesimo corpus, eretto ad autorità sovrana; suppone uno stadio avanzato della composizione degli scritti biblici) e verbale formale (al tiqré: assicura la relazione mediante l’idea di una partecipazione reciproca dei termini, offrendo una parentela di forma indipendentemente da un rapporto semantico). Questa presenza in 1-2Cronache contribuisce a gettar luce sull’epoca del libro, un periodo di «riscrittura della Bibbia».
L’uso esteso nel Cronista di queste regole ermeneutiche, già praticate nel II secolo a.C nei testi di Qumran e dei LXX, unito ad altri indizi, come lo sviluppo letterario possibile solo nel periodo ellenistico, nel quale riprendono le scuole scribali soprattutto presso il tempio, e presupponendo una biblioteca (usa fonti letterarie), indicano il periodo piú adatto nel II secolo a.C. Il periodo persiano è escluso (il controllo dell’autorità persiana avrebbe certamente impedito un’opera irredentista come il Cronista, incentrato su Gerusalemme e il tempio) come gli inizi dell’epoca ellenistica (332 a.C.). Si tratta dell’ultimo libro del canone ebraico, che ha come istanza superiore i sacerdoti, i «figli di Zadòq», in particolare i sadducei, che volevano riformare il giudaismo ritornando alla Scrittura. 3) Circa la forma canonica del libro, l’A. propone le seguenti conclusioni: a) Cronache fu composto come cosciente chiusura del canone ebraico (con G. Steins), allo scopo di educare la comunità giudaica nella ricerca della sua identità, quando rischiava di scomparire nel mondo ellenistico globalizzato.
L’identità è fondata sul patto eterno tra Dio e Davide interpretando i fatti del passato; ma, nel recupero delle radici, insegna a guardare al futuro con la speranza di un nuovo Israele; b) per quanto riguarda le fonti, il dibattito è aperto ma è piú interessante il loro uso: l’autore seleziona il materiale a disposizione, ma presuppone la conoscenza di tutta la tradizione, a partire da 1-2Samuele e 1-2Re, però comprende tutti gli scritti profetici; c) in particolare, sembra avere dinanzi un corpus che ritiene autoritativo – «le parole della Legge» per intendere tutta la Scrittura – e che spiega e interpreta secondo alcuni metodi e criteri: l’armonizzazione (crea un accordo tra le differenze e tensioni testuali o tematiche, rielaborando le fonti e inserendo in esse le sue convinzioni e opinioni), le integrazioni e le aggiunte in base a tutta la tradizione considerata normativa per Israele, le tipologie (organizza il materiale secondo modelli, che continuano nella variazione storica e che si richiamano per allusioni), la coerenza tra azione ed effetto (la retribuzione o piuttosto la verifica delle conseguenze dell’obbedienza o disobbedienza al patto).
In definitiva, 1-2Cronache intende confermare la verità della storia profetica, intendendo con ciò tutta la divina rivelazione. 4) Come genere letterario globale Lorenzin non disdegna l’idea del midrash o della «riscrittura della Bibbia», ma in definitiva lo inquadra nella cornice della «storia artistica», scritta a conclusione del canone ebraico nel periodo successivo alle guerre maccabaiche (p. 43), per ritracciare l’identità giudaica rileggendo il passato, ma anche per tracciare la via di un nuovo Israele futuro. Interessante, a questo proposito, è il confronto tra una leggera ma significativa variazione nel testo dell’editto di Ciro come è presentato in Esdra 1,3 e in 2Cr 36,23, che conclude il libro (la sfumatura non sembra intesa o compresa nella nuova traduzione CEI).
Il passo del Cronista sostituisce yehî ’elohayw ‘immô («sia il suo Dio con lui») con Yhwh ’elohayw ‘immô («il Signore Dio è con lui»); inserendo il nome divino, Yhwh, al posto del verbo essere, richiama Nm 23,21, la parola del profeta Balaam su Israele. Si tratta della citazione «in codice», ricordata all’inizio, che inserisce nel discorso del pagano Ciro le parole profetiche del profeta pagano Balaam nella stella che si muove da Giacobbe e nello scettro che si alza da Israele (Nm 24,17), indica la regalità, una visione messianica. Ne consegue «un parallelismo tra l’antico popolo di Israele che si prepara a entrare nella terra promessa, e il nuovo popolo di Israele che sorgerà in futuro, dopo il suo fallimento, una volta entrato nella terra» (p. 22).
Il libro si conclude dunque prospettando una nuova entrata nella terra promessa di una nuova comunità guidata da un nuovo re. Vorrei segnalare qui quella che mi sembra una contraddizione tra le pp. 41 e 42: nella prima si afferma che «l’autore considera la sua opera come un commentario agli scritti profetici»; nella seconda «considerare 1-2Cronache come un commento agli scritti dei profeti sembra non cogliere tutta la ricchezza del libro». La breve introduzione (43 pagine) è seguita dalla traduzione e il commentario esegetico, dove l’attenzione è posta sulla elaborazione del testo in funzione attualizzante della storia. La lunga «genealogia» di 1Cr 1-9, con cui inizia il libro, è letta nella sua struttura che mira a esprimere le relazioni fra individui e gruppi, ad autenticare i legami e a legittimare una funzione o dignità ereditaria, quindi a definire un gruppo, per mostrare come Dio intenda ricostruire il suo popolo sulla base degli antichi progetti (non solo per appoggiare lo status quo del passato, anche per cambiare).
Le genealogie sono organizzate secondo lo schema seguente: a) da Adamo ai figli di Israele (nome preferito dal Cronista a Giacobbe), che prepara l’avvento del popolo di Israele, da cui verranno, nell’arena della storia dell’umanità, Davide e Salomone frutto della scelta di Dio; importanti sono i nomi chiave posti alla fine degli elenchi (1,1-2,2); b) la tribú di Giuda (2,3-4,23); c) la tribú di Simeone (4,24-43); d) le tribú al di là del Giordano (5,1-26); e) la tribú di Levi (5,27-6,66); f) le tribú del nord e del centro (7,1-40); g) la tribú di Beniamino (8,1-40); h) gli abitanti di Gerusalemme (9,1-34). 1Cr 9,1-2 conclude la lista degli insediamenti registrati in 1,2-8. Molte fonti restano sconosciute. L’autore di Cronache si concentra sulla discendenza di Davide; infatti, fra i tre discendenti importanti di Giuda, prevale Ram, avo di Davide, e la nomina dei discendenti dopo l’esilio fa intuire che Davide era ancora un segno vivo di speranza. Altra tribú dominante è Levi, ma in primo luogo sono i discendenti di Aronne a significare la preminenza dei sacerdoti sui leviti; entrambi sono distribuiti nelle varie zone del paese, come ad assicurare il culto spirituale gradito a Dio. Ripetuta è anche la tribú di Beniamino, forse perché tribú regale, partecipe con Giuda dell’identità e delle tradizioni di Israele. La presenza delle tribú del nord descrive l’Israele ideale unito sotto Davide.
Tuttavia, sono incorporate anche diversità etniche, e anche le donne hanno un ruolo importante, addirittura straniere come nella tribú di Manasse (7,14); alcune possono ereditare (7,15) e persino fondare città dando il proprio nome (7,24). Lo sforzo del commentatore è comunque impegnato a cogliere il senso delle differenze rispetto a Esdra e, nel corso delle varie parti del commento, rispetto a 1-2Sam, 1-2Re, per individuare e confermare l’opera esegetica ed ermeneutica che il Cronista e il mondo che vi fa riferimento intendono offrire al giudaismo attuale. Lorenzin, che già si era impegnato sul testo del Cronista, soprattutto nell’ambito dell’ermeneutica analogica (cf. RivB 40 [1992] 67-76; 44 [1996] 65-70; 57[2009] 3-28, anche 37 [1989] 161-166), opera una buona sintesi delle ricerche contemporanee. Il commento è sobrio, interpreta gli aspetti linguistici, segnala le caratteristiche testuali. Interessanti sono le sintesi finali delle singole sezioni con i principali risultati dell’analisi e il significato centrale del brano. Come esempio del procedere dell’autore e dell’orientamento del libro, valgano le osservazioni a conclusione del regno di Giosia. Egli osserva «una tensione tra la relazione storica dei fatti e il messaggio che l’autore fra le righe vuole veicolare ai suoi primi lettori […] La nuova comunità giudaica da lui (il Cronista) sognata può ancora salvarsi, rimettendo Dio al primo posto e insegnando ai giovani, attratti dalla cultura ellenistica, a cercare Dio come fece Giosia, che giovanissimo si legò a lui».
Tuttavia, Giosia è contestato per l’errore fatale che ne provocò la morte ed è letto con ironia; la sopravvivenza di Israele, messaggio indirizzato ai leader politici del tempo, non è fondabile sulla forza delle armi, ma nel legame con il Signore. «Certamente il tempio di Gerusalemme è un elemento centrale per questo rinnovamento, ma ancora piú fondamentale sembra essere per il Cronista il tempio vivente della comunità, che ascolta la sua parola trasmessa dai suoi profeti. Tali possono essere ora anche i leviti, che leggono la tôrâ e la sanno applicare alle nuove circostanze storiche » (pp. 408s). Tra le componenti tipiche della leadership religiosa e culturale di Israele, i profeti attuali per il Cronista non esistono ma solo quelli della tradizione passata; ora prevalgono nettamente i sacerdoti. Il compito profetico sembra essere fagocitato dal sacerdozio e dal gruppo levitico, in quanto possessore e interprete autorevole della tôrâ, cioè di tutta la Scrittura. È quanto emerge anche dall’ultima parte, la terza: Il messaggio teologico, che contiene la teologia di 1-2Cronache e il posto del libro nel canone.
La teologia comprende i seguenti paragrafi. 1. Una teologia della Sacra Scrittura. L’«unità di tutta la Scrittura» è la prospettiva che permette il processo di armonizzazione e di esegesi del Cronista, che applica le tecniche ermeneutiche del suo tempo, ma con l’attenzione di inserirsi in tutta la tradizione, in armonia con il senso autoritativo della Scrittura (esegesi entro i limiti della tradizione ricevuta). Occorre aver presente però, come ricorda Lorenzin, che l’espressione i «suoi profeti» intende quelli del passato, già acquisiti dalla tradizione, mentre «i messaggeri di Dio» sono i portavoce ispirati di Dio del postesilio, ai quali però non è dato il titolo di profeta o veggente (p. 422). Di conseguenza, potremmo chiamare «profetica» la lettura ispirata della rivelazione scritta, che corrisponde all’«esegesi» sacerdotale. 2. «La parola di Dio efficace nella liturgia del tempio di Gerusalemme» offre perciò il cammino concreto per la comunità. Il motivo fondante è l’identificazione del luogo del tempio con il monte Moria, dove Abramo offrí Isacco e dove l’angelo, apparendo, aveva impedito la morte di Israele. Là il Signore continua a «provvedere» anche oggi. 3. Sarà perciò la parola di Dio ad avere la forza di radunare il «nuovo Israele». Il centro va alla parola, ma con l’autorità che fa capo ai sacerdoti e al tempio. 4. Nella teologia rientra anche il posto che il libro occupa nel «canone». Il Cronista conclude il canone ebraico per il fatto che i rabbini lo ritennero un buon sommario di tutta la Bibbia ebraica. Esso divenne sguardo al futuro incentrato sulla promessa di Balaam a cui allude il testo finale «in codice» dell’editto di Ciro, che invita il popolo a «camminare» o «salire», ossia ritornare a Gerusalemme, non solo per costruire il tempio ma con riguardo a chi dovrà entrare nel tempio. Costui sarà il figlio di Davide, un nuovo Salomone (cf. Mt 12,42) e lo stesso Signore (Ml 3,1), che la lettura cristiana vedrà nel nuovo Giosuè-Gesú (cf. Lettura cristiana di 1-2Cronache, pp. 437s). Lorenzin sa trarre lezioni per lo piú positive da questo libro.
Tuttavia, appare anche un limite. Il testo esprime un movimento evidentemente irredentista, che gioca in difesa di fronte all’ellenismo. Emerge la centralità della parola e della comunità. Ma nel contempo la comunità rischiava una chiusura verso l’esterno e una concezione separatista, in difesa contro tutti gli «intrusi», veri o presunti, per la continua specificazione dell’autentico Israele, a iniziare dalle stesse genealogie. Queste, da una parte, indicano lo sviluppo della speranza nella storia secondo un progetto di Dio, dall’altra, sebbene contengano anche nomi stranieri, rivendicano un’identità che definisce il gruppo accentuando i legami autentici, per legittimare una funzione o dignità ereditaria di fronte agli «altri». Inoltre, se il gruppo dei «soferim» o scribi e il movimento rabbico troveranno un proprio sviluppo, aperto, qui il gruppo sacerdotale – identificato con l’ambiente dei «figli di Zadòq», che è alla base dell’opera – sembra voler occupare tutti gli spazi, compresi quelli profetici. La profezia sembra relegata a un fenomeno del passato.
In conclusione, questo commentario, che considera il Cronista come colui che attinge dal canone come «cassa di risonanza del suo messaggio», mediante un lavoro di «esegesi» (p. 439), offre una buona sintesi degli attuali studi, delle problematiche e dei temi teologici. Un suo particolare pregio consiste nell’attenzione e nella esplicitazione dei metodi esegetici usati nel libro e delle speranze che andavano affermandosi in seno al giudaismo del tempo, sotto la leadership sacerdotale, in un’epoca che andava avvicinandosi all’era cristiana.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" n. 3/2013
(http://www.fttr.it/web/studiapatavina)
I due libri delle Cronache e i libri di Esdra e Neemia nel canone greco dell’Antico Testamento, seguito anche dai cattolici, compaiono dopo la raccolta storica deuteronomista; invece nel canone ebraico sono collocati alla fine della terza parte, detta degli «Scritti». Questa serie di libri viene definita «opera del Cronista», per distinguerla dalla serie deuteronomista: si ritiene in genere che appartengano a una medesima corrente teologico-letteraria post-esilica.
In ebraico i due libri delle Cronache sono detti letteralmente «Parole dei giorni» (Dibrê hayyamîm), termine che comunemente è reso con «Cronache» o «Annali», secondo la dicitura molto frequente nei libri dei Re (cf. 1Re 14,19.29). La Bibbia dei LXX, seguita dalla Vulgata, li chiama invece «Paralipòmena» («cose tralasciate»), per dire che questi libri riferiscono «notizie omesse» negli altri testi e quindi apportano un qualche complemento. San Girolamo, adoperando un linguaggio tecnico del suo tempo, li definisce: «Chronicon totius divinae historiae». Gli studiosi moderni hanno per lo più ignorato i due libri delle Cronache, perché lo consideravano un testo non storico e quindi non degno di attenzione: venivano spesso considerati una semplice ripetizione dei libri di Samuele e dei Re.
Attualmente, invece, assistiamo a un netto cambiamento di opinione, perché negli ultimi anni il Cronista è diventato il tema guida nella recente ricerca sulla composizione della Bibbia. Sebbene sia molto discusso per il suo valore storico, tuttavia questo testo si rivela decisamente interessante, soprattutto perché rappresenta l’unica composizione biblica di cui attualmente possediamo almeno alcune fonti. Perciò il suo studio permette di verificare i metodi seguiti dagli scribi nel trattare i documenti da cui attingevano notizie per redigere nuovi testi. Il nuovo commentario di T. Lorenzin offre, dunque, un prezioso apporto agli studenti e agli studiosi italiani, perché porge nella nostra lingua un valido contributo per conoscere e valutare l’attuale ricerca sull’opera del Cronista.
L’autore, frate conventuale di Padova ed esperto biblista, è attualmente docente di Antico Testamento (Pentateuco, libri storici e Salmi) presso la sede centrale della Facoltà teologica del Triveneto ed è membro della redazione della rivista Parole di vita. Nel suo pregevole commentario egli accoglie l’ipotesi di lavoro che i due libri delle Cronache ed Esdra e Neemia, nella loro forma attuale, non siano opera di un medesimo autore. I libri delle Cronache risalirebbero, dunque, al periodo successivo alle guerre maccabaiche, cioè nella seconda metà del II sec. a.C. e si potrebbero definire una «storia artistica » scritta da un raffinato letterato come conclusione del canone ebraico. Di fronte alla questione testuale Lorenzin ritiene che il testo usato dal Cronista sia lo stesso testo masoretico e non l’altra forma testimoniata dai frammenti di storia deuteronomistica trovati a Qumran (4QSama): in quello stesso periodo, infatti, momento vivace di «riscrittura della Bibbia», prendevano forma stabile sia il testo masoretico sia la versione greca dei LXX.
I libri delle Cronache, dunque, nacquero come opere composte da scribi che, partendo dai testi antichi già scritti, cercavano di attualizzarle per i nuovi tempi usando gli stessi metodi ermeneutici che in seguito saranno adoperati anche negli scritti rabbinici. Secondo lo schema di questa collana di commentari, la prima parte contiene la sezione introduttiva in cui l’autore delinea il profilo storico-letterario dei due libri; nella seconda parte viene proposta una nuova e originale traduzione del testo biblico, accompagnato da commenti approfonditi ed esaurienti, strutturando il testo in brani omogenei; infine la terza parte, dedicata al messaggio teologico, riassume i principali insegnamenti di quest’opera biblica, ne discute la posizione nel canone e delinea un’interessante storia degli effetti che le Cronache hanno prodotto nella tradizione successiva. Completano l’opera un lessico biblico-teologico, ricca bibliografia ragionata e dettagliatissimi indici. Grazie al contributo originale dato dall’autore, questo commentario costituirà un punto necessario di riferimento per ogni ricerca futura sull’argomento.
Tratto dalla rivista "Parole di Vita" n. 4 del 2013
(https://www.queriniana.it/parole-di-vita)
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