Ebrei e cristiani: duemila anni di storia
-La sfida del dialogo
(Ecumenismo e dialogo) [Con risvolti di copertina]EAN 9788831534550
Il volume raccoglie materiali provenienti da un ciclo organizzato nel 2002 dalla “Commissione interregionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligoso Piemonte - Valle d’Aosta”. Esso abbraccia due millenni di rapporti tra ebrei e cristiani. Si tratta di argomenti interessanti che ci danno un’idea del passato conflittuale e del presente dialogico delle due realtà religiose tanto vicine e allo stesso tempo tanto lontane. L’intero materiale trattato è diviso in tre parti: 1. l’ebraismo: storia e cultura; 2. dalle origini cristiane ai conflitti cristiano-ebraici; 3. il superamento del conflitto e il riconoscimento reciproco. Indichiamo gli argomenti trattati dagli Autori con l’aggiunta di rilievi che riteniamo opportuni. La prima parte è aperta da Paolo De Benedetti con un’esposizione su “Il giudaismo talmudico” (pp. 17-30), cui fanno seguito lo studio di Alberto Moshe Somekh: “Ebrei e gentili all’epoca del giudaismo del secondo tempio” (pp. 31-53) e quelli di Piero Capelli su “Gli Ebrei in Europa e nel Mediterraneo tra il Medioevo e l’emancipazione” (pp. 55-78) e di Gadi Luzzatto Voghera su “Il mondo ebraico contemporaneo” (pp. 81-104). Si tratta di esposizioni essenziali ma molto istruttive. Ci sembrano degni di nota alcuni rilievi di Somekh sul giudaismo del secondo tempio: la coesistenza di prospettiva universalistica e componente nazionale; la coscienza dell’elezione che non esclude la salvezza delle altre nazioni; l’intento di Israele che vive secondo i precetti della Torà di fare proseliti al Noachismo per l’osservanza di un’etica universale destinata alle nazioni non legate alla Torà (pp. 43-44), con l’interessante osservazione: «il proselitismo ebraico […] non dovette mirare tanto a convertire le genti pagane al Mosaismo, quanto ad avvicinarle a quel monoteismo etico che costituiva la sostanza del Noachismo» (p. 47) con le “sette leggi” date ai figli e alla figlie di Noè (pp. 47-51). La seconda parte si apre con l’esposizione di Claudio Gianotto dal titolo “Gesù ebreo e la nascita del cristianesimo” (pp. 107-126), cui fa seguito quella di Enrico Norelli: “Il problema dell’antigiudaismo nel NT e nella prima letteratura cristiana” (pp. 127-160), due argomenti scottanti nella ricerca attuale; seguono due trattazioni di carattere prettamente storico: Giuseppe Laras: “Le dispute medievali” (pp. 161-174); Giovanni Miccoli: “La Chiesa cattolica e l’antisemitismo tra ottocento e novecento” (pp. 177-202). Sui primi due osservazioni sollecitate dalle loro asserzioni centrali. C. Gianotto sostiene che si dia una contrapposizione dottrinale radicale tra Paolo e Giacomo capo della comunità giudeocristiana di Gerusalemme. A suo dire, in base alle testimonianze neotestamentarie e al documento giudeocristiano “Recognitiones”, per Paolo la venuta di Cristo ha superato la Torà con le sue varie prescrizioni e conta solo la fede in Lui, mentre per Giacomo essa «l’ha semplicemente riportata alla sua purezza originaria», così che «l’azione salvifica di Gesù non sostituisce quella della Legge, ma le è complementare» (p. 126). Dal tenore di queste parole si deve dedurre che da Giacomo le due realtà, oltre ad essere ritenute complementari, siano poste sullo stesso piano e la prima in certa misura sia vista in funzione della purificazione della seconda. Ma sorge una domanda: è pensabile che Giacomo e il suo gruppo gerosolimitano, pur se convinti del permanente valore della Torà almeno per i giudei cristiani, in quanto credenti in Cristo abbiano posto le due realtà sullo stesso piano salvifico e abbiano considerato la venuta di Cristo come riconduzione della Torà alla sua purezza? Credo che ciò non sia sostenibile. In quanto cristiani Giacomo e i suoi ormai credevano in Cristo come via di salvezza, non nella Torà, anche se a questa attribuivano un peso rilevante. Enrico Norelli da parte sua traccia con efficacia il percorso della graduale separazione delle comunità cristiane dal giudaismo talmudico nei primi due secoli, rilevando che per legittimarsi abbiano assunto sempre più chiaramente un carattere “antigiudaico”, denigrando il giudaismo, con il punto culminante di Marcione, «per affermare se stesse come le sole rappresentanti autentiche di quello che avrebbe dovuto essere il “vero” spirito della religione d’Israele» (p. 160). Da storico registra questo fatto, evidenziandone le ragioni teologiche (p. 145ss). Tuttavia, chiudendo lo scritto, si chiede «se poi un simile atteggiamento sia inevitabile e ineliminabile nel cristianesimo, o se quest’ultimo possa diventare capace – ciò che, a mio avviso, ancora non è – di pensare teologicamente se stesso in modo tale da includere il pieno riconoscimento di ciò che da duemila anni è il giudaismo, è una sfida per il nostro tempo; una sfida difficile e complessa, ma che penso sia necessario rilevare» (p. 160). Queste parole sollecitano una precisazione. Penso che se per “antigiudaismo” si intende tutto quel complesso di affermazioni, spesso animose e violente e in crescendo, delle fonti cristiane dei primi due secoli contro il giudaismo chiuso, e molte volte anche ostile, al cristianesimo, è chiaro che ciò in ambito cristiano non solo è evitabile ed eliminabile, ma va anche evitato ed eliminato. Ma se evitare l’“antigiudaismo” significa che la comunità cristiana abbia dovuto nel passato e debba oggi «pensare se stessa in modo tale da includere il pieno riconoscimento di ciò che da duemila anni è il giudaismo», ritenendolo in sostanza “via di salvezza” parallela a quella in Gesù Cristo, nella prospettiva cristiana sbocco e compimento di quella fondata sulla Torà, credo non sia pensabile che l’“anti”, al di là di tutti i debiti sforzi ed lodevoli iniziative dialogici, sia oggettivamente evitabile ed eliminabile in ambito cristiano. La parte terza contiene un contributo di E. Bianchi dal titolo: “Ebrei e cristiani dalla scomunica al dialogo” (pp. 207-217); il lungo contributo del curatore Piero Stefani: “L’incontro delle Chiese cristiane con il popolo ebraico” (pp. 219-260); la trattazione del valdese Daniele Garrone su “La visione degli ebrei nel mondo della Riforma” (pp. 263-281), ove l’Autore prende in considerazione varie affermazioni di Lutero sugli ebrei e poi riporta documenti di Chiese protestanti durante il nazismo, dopo la guerra e in anni recenti sul popolo d’Israele e la sua elezione; infine il contributo di Amos Luzzatto su “Attese ebraiche dal mondo cristiano” (pp. 285-296). Anche su alcuni di questi contributi qualche osservazione. Dalla lettura del testo di D. Garrone si ricava l’impressione che il mondo protestante nei riguardi degli ebrei abbia oscillato da un estremo all’altro. È nota la posizione ostile, non solo teorica ma anche pratica, di Lutero contro gli ebrei, almeno negli ultimi anni della sua vita. Non meraviglia quindi l’atteggiamento delle Comunità protestanti nei loro confronti sotto il nazismo. Il dramma tedesco di Auschwitz e della Shoah ha spostato successivamente l’ago del pendolo all’altro estremo. È dato leggere così alcune dichiarazioni di Chiese evangeliche degli ultimi decenni che affermano la perdurante elezione degli ebrei e l’Alleanza di Dio con loro (cf. pp. 275-277), ma senza mettere in rapporto dialettico questa serie di asserzioni con la professione cristiana centrale che Gesù Cristo è salvatore di tutti gli uomini, ebrei compresi. Qualche rilievo sul contributo documentato, istruttivo e stimolante di Piero Stefani. L’Autore tratta diversi temi storici e attuali del rapporto ebrei-cristiani e successivamente apporta vari documenti in cui sono fatte affermazioni significative su di esso. Per quanto riguarda la problematica dell’“Alleanza non revocata” l’Autore, dopo aver riportato gli orientamenti esegetici al riguardo, è del parere che il popolo ebraico resti beneficiario dell’alleanza promessa un giorno ad Abramo per la sua fede, vera radice di cui si nutre Israele, e quindi, «pur non essendoci in Cristo né giudeo, né greco (cf. Gal 3,28), al popolo ebraico, in quanto tale, continua a spettare un ruolo insostituibile» (p. 241). Aggiunge che questa posizione di Paolo «non ha nulla da spartire con la cosiddetta “teologia delle due vie”. Per quest’ultima visione proposta da un certo filone della ricerca teologica contemporanea, Israele è salvato esclusivamente a causa dei padri, mentre le Genti lo sono solo a motivo d Gesù (che, in tal modo, si presenterebbe come Messia unicamente dei gentili). Di contro, nella prospettiva paolina, Israele e i chiamati dalle Genti non si salvano affatto ognuno a suo modo. Il ruolo assegnato alla croce di Cristo resta per tutti fondamentale e insostituibile (1Cor 1,22-24)» (p. 242). Allora, in che consiste «il permanere dell’elezione di Israele»? (p. 242). A suo dire nel fatto che, pur avendo Israele un rapporto di “intrensicità” con la Chiesa, alla sua elezione da Paolo è dato riconoscimento permanente non in quanto esso «è assunto entro uno schema teologico altrui», ma con riferimento «a quanto gli è proprio (“possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze..”» (p. 242). Ciò mi sembra esatto, ma solo in parte, perché il discorso dell’Apostolo non può essere spezzato: quell’elezione di Israele che Paolo sostiene permanere, allo stesso tempo da lui è vista chiamata a confluire nella pienezza del suo “fine”, che è la gloria del volto di Cristo pena un velamento (cf. 2Cor 3,7-16), una “schiavitù” (Gal 4,21ss), una “potatura” (Rm 11,19-21). L’elezione divina che permane nella logica di Paolo costituisce motivo in più perché Israele conflusca nel suo compimento inteso da Dio, Cristo. Stefani tocca anche la recente questione del mutamento della preghiera “Pro Iudaeis” del venerdì santo nel messale romano approvato da Giovanni XXIII nel 1962. Rileva che il testo della preghiera che recita «ut plenitudine gentium in Ecclesiam tuam intrante” include l’espressione «in Ecclesiam tuam” assente nel testo di Paolo e nella formulazione, pur intesa in senso quantitativo, «continua a risuonare l’eco escatologico della sua matrice paolina» (p. 259). Ora è da pensare, come alcuni hanno interpretato il testo, che l’ingresso della parte di Israele che non accetta ancora Gesù Cristo (e non di tutto Israele, perché una sua parte, benché esigua, ha accettato Gesù Cristo e quindi è già nella Chiesa, come osserva giustamente Stefani nelle pp. 259-260), esprime solo una speranza escatologica della Chiesa? L’Autore non lo dice, comunque ritiene che il testo non miri alla conversione degli ebrei «se per “conversione” si intende l’esplicito ingresso, nel corso della storia, degli ebrei nella Chiesa cattolica» (p. 257). Penso però che si debba dire che per il fatto che la preghiera contiene le parole “in Ecclesiam tuam”, essa intenda anche un evento in seno alla storia e non solo quello escatologico metastorico, ove propriamente non si entra nella Chiesa, ma nel Regno, di cui la Chiesa, nel linguaggio del Vaticano II, nella storia è germe e inizio (cf. LG 5). Sembra opportuno in conclusione richiamare un passo dell’intervento di Amos Luzzatto, che, parlando del dialogo, dice: «A tutti è richiesto di presentare il proprio biglietto da visita, anche se crediamo che tutto sia chiaro, tutto semplice; ma ciò non è vero e dobbiamo lavorare perché almeno il linguaggio diventi dialogico: io non devo essere necessariamente d’accordo con te ma ho bisogno di capire quello che tu dici e che tu capisca quello che io dico, per verificare fino a che punto possiamo essere d’accordo e dove non possiamo più esserlo» (pp. 292-293). Parole sagge, guida ad un dialogo ove l’esposizione della propria visione delle cose, anche se non condivisa dall’altro, è detta con chiarezza e serve a fugare confusioni e a porre la base di un rapporto di “convivialità delle differenze”. Come si vede, la lettura del libro arricchisce la conoscenza, stimola ad approfondimenti e precisazioni, alimenta la convinzione che la differenza non taciuta, ma detta e vissuta anche con “sofferenza”, non ostacola il dialogo, ma lo rende vero e più serio.
Tratto dalla rivista Lateranum n. 2/2009
(http://www.pul.it)
Abbiamo già avuto modo di occuparci della collana ECUMENISMO E DIALOGO, diretta da Andrea Pacini, che – secondo una nota dell’editore,- «intende diffondere una conoscenza qualificata delle questioni che caratterizzano oggi le relazioni tra le confessioni cristiane e le diverse religioni, con particolare riferimento al contesto europeo». Questo volume, curato da Piero Stefani, che è uno dei massimi esperti di ebraismo in Italia, si avvale di contributi a più voci per attraversare duemila anni di storia dei rapporti tra ebrei e cristiani. Il dialogo cristiano-ebraico è uno dei frutti maggiori del Concilio Vaticano II, momento chiave e qualificante della grande assise. Ben a ragione si parla di dialogo cristiano-ebraico e non cattolico-ebraico: «Proprio il Concilio ha infatti indicato una linea seguendo la quale l’incontro con il popolo d’Israele attiene alla dimensione ecumenica delle Chiese» (dall’Introduzione, p. 5). «Affermare che gli ebrei sono testimoni di una fede senza la quale non si darebbe neppure il cri-stianesimo rappresentò perciò un salto qualitativo senza precedenti» (dall’Introduzione, p. 6).
E’ a partire dall’allargamento di orizzonti del Concilio che gli ebrei hanno cominciato ad essere considerati testimoni viventi della fede biblica. La via imboccata ha aperto altre prospettive per comprendere a poco a poco che l’ebraismo non è riconducibile solo ad un’unica matrice, quella della fede biblica. La Bibbia rappresenta certo un terreno comune di conoscenza e di dialogo, ma accanto a questa si è imposta la necessità di considerare la complessità della tradizione ebraica attraverso i secoli. Anche l’indagine storica sulle origini cristiane e la stessa affermazione della ebraicità di Gesù portano allo studio e alla comprensione del mondo culturale giudaico. Non basta più un’unica prospettiva nell’approccio al mondo ebraico presente. Lo scopo del volume – come afferma Piero Stefani - è quello di «dare spazio alla storia ebraica» che non è solo una lunga vicenda di persecuzioni subite, ma è anche una «storia propositiva costituita da vicende ricche sul piano religioso, culturale e sociale» (dall’Introduzione, p. 12).
Gli interventi pubblicati, provenienti quasi tutti da un ciclo organizzato nel 2002 dalla Commissione interregionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso Piemonte-Valle d’Aosta, portano la firma di esperti molto noti della cultura ebraica e cristiana e si soffermano sui due millenni successivi all’epoca biblica, tempo in cui storia ebraica e cristiana procedono contemporaneamente. Il percorso del volume si snoda in tre parti: nella prima intitolata «Ebraismo: storia e cultura», Paolo De Benedetti considera la nascita e lo sviluppo del giudaismo rabbinico, offrendo opportune precisazioni sul significato e l’uso di alcuni termini. Alberto Moshe Somekh prosegue sul rapporto tra ebrei e gentili all’epoca del giudaismo del secondo tempio: come gli ebrei giudicavano se stessi nel confronto con gli altri. Piero Capelli passa in rassegna la vicenda degli ebrei in Europa e nel Mediterraneo tra il medioevo e l’emancipazione. Conclude la prima parte uno sguardo ampio al mondo ebraico contemporaneo da parte di Gadi Luzzatto Voghera. La seconda parte «Dalle origini cristiane ai conflitti cristiano-ebraici» è centrata su alcuni temi nevralgici quali l’ebraicità di Gesù e la nascita del cristianesimo (Claudio Gianotto), l’antigiudaismo nel Nuovo Testamento e nella letteratura cristiana antica (Enrico Norelli) con il conseguente sviluppo dell’identità cristiana in opposizione a quella giudaica.
Il rabbino Giuseppe Laras passa in rassegna le dispute medievali con un’attenzione alla Spagna, alla Francia e all’Italia. Chiude la seconda parte Giovanni Miccoli, che dedica il suo intervento a «La Chiesa cattolica e l’antisemitismo tra Ottocento e Novecento». La terza parte infine, dedicata al «Superamento del conflitto e al riconoscimento reciproco», vede un contributo di Enzo Bianchi sulla grande svolta storica del Concilio Vaticano II. Piero Stefani allarga la prospettiva all’incontro delle diverse confessioni cristiane con il popolo ebraico; il pastore valdese Daniele Garrone dedica alcune pagine alla visione degli ebrei nel mondo della Riforma. Interessante l’intervento conclusivo di Amos Luzzatto sulle attese ebraiche dal mondo cristiano. Si tratta di un tema insolito dal carattere propositivo in cui l’autore affermando la sua grande fiducia nel dialogo, ne fornisce anche alcune indicazioni di metodo. L’ebraismo è un mondo complesso che chiede di essere riconosciuto e capito per quello che è. Il dialogo non necessariamente richiede l’accordo, ma mette le persone in grado di capire i rispettivi linguaggi. Luzzatto propone due temi caldi sui quali il dialogo è indispensabile: la costruzione della nuova Europa e il rapporto con il mondo islamico. L’ attesa ebraica è non solo quella di un riconoscimento di identità, ma di essere in Europa una presenza concreta, riconosciuta, attiva e propositiva. Per il suo carattere interdisciplinare il volume risulta essere di grande interesse per quanti nelle Chiese cristiane si aprono alla realtà del dialogo con gli ebrei. Un dialogo che non sia «episodico» non può prescindere dalla conoscenza del contesto culturale, politico e sociale del proprio interlocutore.
Tratto dalla rivista "Parola e Storia" n. 1/2010
(http://www.scienzereligiose-br.it)
-
35,00 €→ 33,25 € -
1,50 €→ 1,42 € -
2,00 €→ 1,90 € -
5,00 €→ 4,75 € -
12,50 €→ 11,87 € -
35,00 €
-
9,00 €→ 8,55 €
-
37,20 €→ 35,34 € -
-
-
-
12,00 €→ 9,60 € -
-
-
11,00 €→ 8,80 € -