Dai Padri della Chiesa i più significativi commenti patristici ai due testi delle Epistole paoline.Scritte tra il 52 e il 56 d.C., negli anni in cui san Paolo vive a Corinto, le Epistole ai Corinzi sono da sempre uno dei testi più conosciuti del Nuovo Testamento. Nel rivolgersi alla chiesa della più grande e importante città greca di quei tempi, l'Apostolo affronta i problemi e le difficoltà che la comunità stava vivendo: la tendenza al perfezionismo, l'orgoglio per i carismi e doni spirituali, il matrimonio e la fornicazione, profonde divisioni, false filosofie e la pretesa dell'eloquenza. Paolo dimostra l'intrinseca connessione di questi problemi, che potevano esser curati accogliendo la retta recezione del Vangelo. Esplicita correzioni dottrinali, rivolge esortazioni morali, invita all'unità e alla carità. Migliaia sono i commenti patristici ai due testi. Si raccolgono qui i più significativi, in particolare dell'Ambrosiaster, Agostino, Ambrogio, Didimo Cieco di Alessandria, Giovanni Crisostomo, Tedoreto di Cirro, Gregorio di Nissa.
INTRODUZIONE A 1-2 CORINZI
CHI HA SCRITTO LE LETTERE AI CORINZI?
Ormai, praticamente tutti i commentatori antichi e moderni sono d'accordo nell'attribuire a Paolo la paternità di 1-2 Corinzi, anche se si continuano a nutrire dubbi sul fatto che l'attuale forma della 2 Corinzi risalga effettivamente a lui. Fin dall'antichità c'era il sospetto che Paolo avesse scritto anche altre lettere ai Corinzi, ma non era chiaro neanche allora se e fino a che punto il loro contenuto fosse riuscito a entrare nei testi canonici così come li abbiamo. Datare le lettere è quindi complicato, specialmente se si accetta una loro redazione più tarda. In ogni caso sappiamo che non possono essere state scritte prima del 49-51, ossia gli anni in cui Paolo era a Corinto, e sembra molto verosimile che esse possano essere collocate nel periodo tra il 52 e il 56, considerando la seconda lettera successiva di circa un anno rispetto alla prima.
PERCHÉ LE LETTERE AI CORINZI SONO IMPORTANTI?
Al consenso quasi unanime circa la paternità delle lettere, corrisponde un accordo altrettanto diffuso circa l'importanza delle lettere. La 1 Corinzi è la più lunga delle lettere di Paolo e inoltre è stata scritta alla chiesa della più grande e importante città greca di quei tempi. La 2 Corinzi riprende i temi della prima, approfondendone aspetti che erano stati appena accennati o non pienamente sviluppati. Le lettere rappresentano una testimonianza preziosa delle difficoltà incontrate da una delle prime chiese fondate da Paolo. Molte di queste difficoltà riguardavano le delicate questioni dell'autorità e della leadership. I Padri non affermano esplicitamente che l' episcopato monarchico fosse la soluzione dei problemi dei Corinzi, sebbene il messaggio dovesse essere chiaro anche ai loro lettori, in quanto Paolo appare molto insistente nel dichiarare che solo lui o coloro che erano stati ufficialmente delegati da lui fossero in grado di dirimere questioni interne alla comunità.
La natura del problema diventa più chiara nella Seconda lettera, in cui l'apostolo si sente obbligato a difendere la sua autorità e testimonianza. L'imbarazzo di questa condizione emerge in ogni parola, e i Padri non tardarono a recepire lo stato d'animo di Paolo. Essi erano abituati, grazie alla loro familiarità con la retorica classica, all'uso dell'ironia e risposero alla difesa di Paolo con istintiva simpatia. Inoltre, intuirono acutamente che il disagio nei confronti dell'apostolo significava disaccordo con il suo insegnamento e quindi una deviazione verso l'eresia. L'eresia era un problema attuale nel IV secolo, in cui erano attivi falsi profeti come Ario ed Eunomio che, a quanto sembrava, danneggiavano la Chiesa della loro epoca come i falsi profeti avevano danneggiato Corinto. Emerge, ancora, chiaramente lo stretto legame che secondo i Padri si era stabilito tra eresia e immoralità: nessuno, a quanto pare, dubitava che l'uomo che aveva giaciuto con la moglie del padre (1 Cor 5) fosse anche il principale eresiarca.
Le incertezze sulla guida della comunità di Corinto avevano generato una profonda divisione nella comunità, che rischiava di lacerarsi in due fazioni. I capi di questi partiti erano personalità molto carismatiche, che in alcuni casi orientavano la comunità verso dottrine che si allontanavano dal primitivo messaggio paolino.
Grazie all'esperienza contemporanea, i Padri erano ben consapevoli che l'unità e la verità andavano di pari passo e nei commenti a queste lettere enfatizzavano costantemente questo legame. Tuttavia, nello stesso tempo, è interessante notare che sapevano poco di più, e forse addirittura meno, di quello che sappiamo noi sulle persone menzionate da Paolo. A questo riguardo, la confusione sull'espressione "la famiglia di Cloe" in 1 Cor 1, 11 è particolarmente rivelatrice. Evidentemente alcuni Padri pensavano che Cloe fosse un luogo, non il nome di una persona, il che dimostra che già nel IV secolo esistevano tradizioni contrastanti sui primi giorni della Chiesa corinzia.
Le lettere non affrontano direttamente la questione dei rapporti tra Giudei e Gentili, come accade in Galati e Romani, ma il problema affiora spesso in superficie.
Le lettere sono significative anche perché mostrano la natura del problema della santificazione per i cristiani provenienti dal paganesimo. I Giudei avevano risolto la questione rifiutando di cibarsi della carne consacrata agli idoli e mantenevano poche o nessuna relazione sociale al di fuori della loro comunità. I Gentili non avevano questa possibilità, sebbene alcuni giudeo-cristiani cercassero di imporgliela. Essi dovevano vivere nel loro ambiente senza lasciarsi contaminare e senza offendere quelli che non capivano, o non potevano capire, la delicatezza della loro posizione.
La risposta di Paolo, qui e altrove, è, in sintesi, che essi dovevano difendere i principi della libertà cristiana, sia contro la legge mosaica, sia contro il paganesimo, ma nel caso in cui questa posizione comportasse difficoltà nei rapporti con i fratelli, dovevano sacrificare le loro opinioni personali per amor di pace. Ciò significava non mangiare le carni consacrate agli idoli, cosa che avrebbe offeso i Giudei, ma anche essere disponibili a socializzare con i pagani e persino accettare i matrimoni precedenti alla conversione. In altro ambito, i cristiani che provenivano dal paganesimo furono anche costretti a conciliare le istanze contrastanti della filosofia e della religione. Nel mondo greco questi due aspetti erano separati e spesso reciprocamente ostili. Molti filosofi concordavano con Platone e consideravano la religione una superstizione irrazionale da rimuovere. D'altro canto, parte della pratica religiosa pagana aveva poco a che fare con la moralità e talvolta prevedeva anche la fornicazione rituale. Questi problemi erano ancora vivi nel IV e V secolo e dunque i Padri erano molto più autenticamente vicini alla mentalità dei primi cristiani di quanto non possiamo esserlo noi ora.
Né la filosofia né la religione avevano molto da dire sulle considerazioni riguardo alla carità, che occupano gran parte della Seconda lettera ai Corinzi. L'amore e la generosità nei confronti dei fratelli in difficoltà era un segno distintivo del cristianesimo antico, in quanto sentimento totalmente sconosciuto al mondo pagano. Anche in questo caso i Padri ne erano molto più consapevoli di noi, che abbiamo ereditato secoli di tradizione che associa la carità all'elemosina: i Padri avevano compreso che le due lettere contenevano fondamenti imprescindibili della teologia paolina, sebbene fossero di impianto meno dottrinale della Lettera ai Romani, nondimeno esse si rivelavano essenziali per l'insegnamento cristiano. Basti pensare alla dottrina della risurrezione della carne, che fa sorgere immediatamente la questione dell'incarnazione di Cristo e della sua divinità.