PREFAZIONE
di A. Trapè OSA
Nella PBA sono già uscite tre opere agostiniane riguardanti la vita monastica: La verginità consacrata, I monaci e il lavoro, Clero e vita in comune (Discorsi 355-356). Non poteva mancare la principale, la Regola, che, pur breve, è tanto ricca di sapienza e tanto in-f lusso ha esercitato nel monachesimo occidentale.
Esaurita pertanto l'edizione di qualche anno fa, tradotta e diffusa in due edizioni in spagnolo, ho pensato di riproporla ai lettori italiani in occasione del XVI centenario della conversione di S. Agostino. Occasione propizia, mi è parso, perché la Regola, anche se fu scritta piu tardi, è un frutto di quella conversione la quale uni al ritorno della fede l'adesione totale all'ideale monastico.
In questa seconda edizione italiana, il lettore noterà che manca qualcosa e c'è in piu qualcosa: manca quasi integralmente la prima parte sul monachesimo agostiniano, che ho preferito rimandare a un'altra opera, dove l'argomento sia trattato in modo piu esauriente; c'è invece di piu un breve apporto di note che richiamano l'attenzione sui punti salienti della Regola, che sono molti e importanti.
Per il resto, il tutto è stato largamente rifuso, aggiungendo, togliendo, perfezionando. Già, perfezionando. Cosí almeno lo spero. Se il lettore sarà della mia stessa opinione ne ringrazieremo insieme il Padre della luce da cui discende ogni dono (Gc 1 , 1 7) .
Dalla prefazione alla prima edizione: «Mi rivolgo soprattutto ai giovani, perché essi, a mio avviso, sono particolarmente interessati al discorso agostiniano; lo sono per una specie di somiglianza che mi pare di scorgere tra i loro sentimenti e i sentimenti del Vescovo d'Ippona che ebbe un animo profondamente sensibile, sempre aperto a tutti i valori divini e umani... A questi giovani, io dico: meditate la Regola di S. Agostino una, due e tre volte; e troverete riflesso l'animo del grande Vescovo d'Ippona, che amò immensamente i giovani, che fu sempre buono e generoso con loro, che a loro soprattutto volle insegnare il segreto di conservare perennemente la giovinezza dello spirito; vi troverete ciò che amate, ciò che sapete di amare, e forse anche ciò che amate senza saperlo».
ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE
QuESTIONE STORICA
Anzitutto bisogna evitare equivoci nell'impostazione stessa della questione. Bisogna cioè distinguere tre aspetti diversi o, se si vuole, tre questioni diverse: l'autenticità della Regola, i primi destinatari della medesima, la data di composizione.
Il grado di certezza raggiunto dalla critica in ciascuna di queste tre questioni e molto diverso. Nella prima c'è, e c'è stata sempre, in sostanza, unanimità di consensi, tanto gli argomenti sono validi. Nella seconda i pareri sono stati diversi, ma oggi la preponderanza è decisamente a favore della priorità della Regola diretta ai monaci. Nella terza i pareri sono più discordi e una precisazione è più difficile.
L'ITINERARIO
Prima di parlare dell'autenticità della Regola è forse utile dare un rapido sguardo all'itinerario verso l'ideale monastico percorso da S. Agostino.
Fu un itinerario spirituale che può essere indicato con i nomi del suo itinerario geografico, cioè: Cartagine, Milano, Roma, Tagaste, Ippona.
Infatti, a Cartagine scoperse in sé quelli che possiamo chiamare i primi germi della vocazione; studiò in seguito nell'organizzazione monastica; a Tagaste, durante tre anni, fece i primi esperimenti nella via del monachesimo; a Ippona attuò definitivamente il suo proposito fondando il monastero dei laici e creando poi, divenuto vescovo, quello dei chierici.
Giova seguire, parallelamente, i due itinerari, prendendo occasione dal secondo per illustrare il primo. Cominciamo da Cartagine.
1. Cartagine
Ci riferiamo alla prima dimora nella metropoli africana. Agostino vi giunse nel 371, a 17 anni. A 19 scoperse in sé qualcosa di grande; qualcosa che non era, certo, la vocazione religiosa; ma che era, senza dubbio, un germe inconsapevole, una preparazione, una spinta verso quella meta.
In realtà egli scoperse allora la vocazione dell'uomo, che è quella di amare e possedere la sapienza, cioè Dio. La scoperse nel bisogno d'immortalità, di libertà, di infinito che proruppe, improvvisamente, nel suo animo e che soggiogò, da quel momento, i suoi pensieri. Egli non conosceva, allora, i consigli evangelici, né v'era intorno a lui chi potesse offrirgliene l'esempio; ma quando, più tardi, li conobbe, capi che la via proposta da Cristo e seguita dai piu generosi dei suoi discepoli era proprio quella che permetteva di giungere con rapidità e pienezza, come egli desiderava, alla sapienza.
I fatti sono noti. Agostino frequentava da due anni il corso di retorica, quando ebbe tra le mani, come testo scolastico, l'Ortensio di Cicerone. Nel leggerlo, non si fermò, a somiglianza di molti coetanei, alle belle parole, ma penetrò nel fondo del pensiero; e ne fu sconvolto.
Quel libro conteneva una vibrante esortazione alla ricerca della sapienza, che è la sola immortale, e che sola è degna di essere amata e cercata. Quella esortazione cadde in un terreno straordinariamente fertile. Il figlio di Patrizio e di Monica, anche se lo ignorava, aveva sortito da natura un animo nobilissimo e immensamente profondo. L 'Ortensio gli servì per scoprirlo.
Mai fino allora aveva spinto lo sguardo nel suo mondo interiore, mai aveva pensato a quella forza profonda che lega l'animo umano all'eterno, alle realtà immutabili, a Dio. Pago dei successi scolastici, della carriera forense che gli si profilava davanti rosea e promettente, e dell'amore di una donna con cui conviveva ormai da un anno, si sentiva tranquillo e non cercava altro. L'Ortensio ruppe questo incanto e, prospettando realtà fino allora impensate, fece scoppiare la scintilla che suscitò l'incendio e creò l'inquietudine, la tensione, la ricerca. Nacque da quel momento il pensatore, che diverrà piu tardi il contemplativo e l'asceta.
«Quel libro — scriveva nelle Confessioni alla distanza di 25 anni —, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, sviì d'un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore. Così cominciavo ad alzarmi per tornare a te».
Cominciava ad alzarsi. Era solo l'inizio. La meta era ancora lontana e il cammino lungo, faticoso, tortuoso. Le speranze terrene che prima di allora lo avevano dominato erano tre: le ricchezze, gli onori, la donna. Le abbandonò una dopo l'altra per cercare eper possedere solo la sapienza; ma le abbandonò in tempi e in modi diversi. Dalla prima si staccò subito. «Desideri le ricchezze?» si domanda nei Soliloqui. E si dà questa risposta: «No, e da tempo. Difatti ora io ho trentatré anni e sono decorsi già quattordici anni dacché ho cessato di desiderarle. E da esse non ho richiesto altro, se eventualmente furono disponibili, che il vitto necessario e l'onesta utilità. Bastò un solo libro di Cicerone a persuadermi che le ricchezze non si devono in alcuna maniera desiderare».
Le altre speranze avevano radici più profonde, soprattutto l'ultima: la loro rinuncia ebbe una storia più lunga, che val la pena di riassumere.
Letto l'Ortensio e deciso ormai di trovare ad ogni costo la sapienza, Agostino si dedicò avidamente alla lettura della Bibbia.
Ma il gusto letterario abituato alla maestà della lingua ciceroniana e l'orgoglio giovanile, animato da un germe di razionalismo, che desiderava di raggiungere la sapienza senza l'aiuto della fede, lo tradirono. S'incontrò infatti con la semplicità disadorna del linguaggio biblico, che era anche, qua e là, nel testo che aveva tra le mani, sgrammaticato e s'incontrò, soprattutto, con il contenuto delle Scritture spesso oscuro e misterioso o anche, non di rado, apparentemente contraddittorio.
Avrebbe potuto e dovuto superare queste difficoltà chiedendo aiuto almeno per la seconda di esse — la prima doveva accorgersi da sé che non era poi tanto grave — a qualche persona esperta della Chiesa. La Chiesa di Cartagine non doveva averne molte, allora, di persone esperte, lacerata com'era dallo scisma donatista e giacente quasi in uno stato di squallore e di depressione; ma qualcuna non ne sarà mancata di certo, per esempio quel tale Elpidio di cui parla Agostino stesso nelle Confessioni 4. Ma il giovane studente preferì un'altra via: la ribellione.
In questo sentimento lo confermarono i manichei con la loro abile propaganda, diretta a screditare la Chiesa cattolica e a dimostrare le contraddizioni della Sacra Scrittura. Essi invece, i manichei — questi i temi della loro propaganda —, aderivano a Cristo, ma ricusavano il Vecchio Testamento; insegnavano la sapienza, ma non accettavano la necessità di cominciare dalla fede; affermavano che tutto era materia, anche Dio, ma negavano che Dio avesse un corpo umano; professavano un rigido moralismo, ma non riconoscevano la responsabilità del peccato.
Tutto questo fece un'impressione enorme nel giovane Agostino e valse a convincerlo che i manichei erano in grado di offrirgli ciò che andava cercando. Tanto più che la «chiesa» manichea presentava una solida organizzazione e un aspetto esteriore di floridezza spirituale.
I fedeli erano divisi in due categorie: uditori ed eletti. I primi erano i seguaci ordinari, i secondi erano i manichei perfetti, cioè impegnati nell'osservanza integrale del Vangelo, il consiglio della verginità incluso.
S. Agostino ammirò soprattutto questi ultimi, i quali «offrivano — come scrive egli stesso — l'immagine di una vita casta e di una memorabile continenza» 5. Solo piu tardi si accorse di quanto era falsa la loro continenza. Se, nonostante quest'ammirazione per gli eletti, non ne imitò l'esempio, preferendo di restare nel grado dei semplici uditori, non si deve a mancanza di generosità o di coraggio, ma a mancanza di certezza.
Può destar meraviglia quanto stiamo scrivendo; ma risponde pienamente alla testimonianza che Agostino dà di se stesso. Scrive nel De utilitate credendi: «Che cosa mi tratteneva dall'aderire completamente a loro (i manichei), tanto che me ne restavo nel grado degli uditori, come lo chiamano, e non abbandonavo la speranza e gli affari del mondo (come facevano gli eletti), se non che mi accorgevo che erano eloquenti e insistenti nel confutare le posizioni degli altri, ma non altrettanto fermi e sicuri nel provare le proprie?».
Queste parole sono rivelatrici, e nessuno può ignorarne la portata. Esse significano che S. Agostino sentiva fin d'allora, a 19 anni, l'anelito alla perfezione, sentiva l'esigenza di spezzare certi vincoli, di abbandonare certe speranze per cercare liberamente la sapienza e possederla pienamente. In altre parole, al suo spirito s'imponeva fin d'allora la rinuncia, in vista dell'acquisto della sapienza, a ciò che particolarmente ci lega alla terra: le ricchezze, gli onori e, soprattutto, il matrimonio. Se allora non si accorse di quanto fossero ardue e difficili queste rinunce, se non seppe che senza uno speciale dono di Dio non si possono compiere, si deve al fatto che un altro problema, un problema più radicale, occupava la sua mente e tutto il suo animo: il problema della verità, che non aveva ancora trovato.
Aveva infatti aderito al manicheismo, ma la sua era un'adesione con riserva: era la posizione propria di chi non è certo, ma attende con fiducia, attende che gli venga mostrato ciò che gli è stato promesso. «Non davo il mio assenso, ma supponevo che sotto l'involucro di arcane dottrine intendessero celare qualcosa di grande, che mi avrebbero svelato in seguito».
Pur ammirando gli eletti manichei — non li conosceva ancora —, non ne imitò l'esempio. E portava a se stesso , o come ragione, la mancanza di una luce sicura che orientasse il suo cammino; ma più tardi, precisamente a Milano, si accorgerà, a sue spese, che non basta avere questa luce per essere in grado di fare quelle rinunce.
2. Milano
A Milano l'esigenza di abbandonare ogni speranza terrena per consacrarsi senza remore alla sapienza risorse imperiosamente; ma ormai in un altro contesto, il contesto della certezza raggiunta, che la rese, perciò, drammatica e vittoriosa.
Erano passati circa 13 anni dall'incontro con l'Ortensio, e, poi, con i manichei. Agostino da Cartagine era tornato a Tagaste, da Tagaste di nuovo a Cartagine, non più studente ma professore di retorica, da Cartagine a Roma, da Roma a Milano. una carriera brillantissima. Non altrettanto brillante l'itinerario interiore. Maturò l'esperienza manichea, terminata, com'è noto, in una amara delusione con l'incontro di Fausto a Cartagine e la convivenza in un circolo di eletti a Roma; ma la morsa soffocante del materialismo non s'allentava e la tentazione del dubbio e la disperazione di raggiungere la verità bussarono più volte alla porta.
Fortunatamente la valida mano della grazia lo rialzò da questo fondo oscuro, riportandolo alla luce della speranza. Intuí che la fede non era un ostacolo, ma un mezzo necessario per raggiungere la sapienza; si convinse, per effetto della predicazione di Ambrogio, che le accuse dei manichei contro la Chiesa erano false; scopri la natura intellettuale, e perciò spirituale, della sapienza; riconobbe in Gesù Cristo non solo il Maestro degli uomini, ma anche il loro Salvatore.
Con ciò la certezza teoretica era raggiunta: ormai vedeva la meta e conosceva la via; via e meta che avevano uno stesso nome: Gesù Cristo.
Nel passato la mancanza di questa certezza, come abbiamo già detto, era stata una ragione (o una scusa) per non fare il passo decisivo. Ora questa ragione (o questa scusa) non c'erano più: occorreva decidere o dichiararsi vinti.
«Non potevo più invocare — scrive il Santo — la scusa di un tempo, quando solevo persuadermi che se ancora mancavo di spregiare il mondo e servire te, era colpa dell'incerta percezione che avevo della verità. Ormai anche la verità era certa».
A questo punto cominciava per Agostino un altro dramma; un dramma affettivo, non meno lacerante e tempestoso di quello intellettuale che aveva sofferto per tanti anni. Si trattava cioè di strappare dal cuore un amore che la natura e l'abitudine vi avevano profondamente radicato; strapparlo — diciamo — in nome di un amore più grande e più bello che era anch'esso radicato non meno profondamente nel cuore.
E non ci riferiamo all'amore del danaro, che da molto tempo non costituiva più un ostacolo, né all'amore della carriera che era diventata ormai un peso; ma all'amore della donna.
«...mi disgustava la mia vita nel mondo. Era divenuta un grave fardello per me, ora che non mi stimolavano più a sopportare un giogo così duro le passioni di un tempo, l'attesa degli onori e del denaro. Ormai tutto ciò mi attraeva meno della tua dolcezza e della bellezza della tua casa, che ho amato. Ma ero stretto ancora da un legame tenace, la donna».
Pergiustificare questo legame da cui non sapeva li berarsi, Agostino tentava di convincere se stesso e l'amico Alipio che il matrimonio non era, poi, un impedimento all'amore della sapienza e al culto dell'amicizia; non mancavano, diceva, esempi di uomini sposati che avevano amato la sapienza e coltivato l'amicizia. Alipio sosteneva il contrario, ripetendo che non avrebbero potuto assolutamente «vivere insieme e indisturbati nel culto della sapienza» come da tempo desideravano, se egli, Agostino, avesse preso moglie.
Ma alla fine era sempre Agostino ad avere la meglio. Alipio, che mai aveva desiderato di sposarsi e che viveva in un'ammirabile castità, cominciò a prendere in considerazione il matrimonio «non tanto per lusinga del piacere, quanto per quella della curiosità. Era curioso, diceva, di conoscere il bene, senza del quale la mia vita, a lui accetta così com'era, a me non sembrerebbe più una vita, ma un tormento. Il suo animo, libero dal legame, si meravigliava della mia schiavitù, e la meraviglia lo stuzzicava a farne esperienza».
Ma un tentativo di vita in comune progettato e organizzato tra una decina di amici, desiderosi di «vivere in pace lontano dalla folla», diede ragione ad Alipio: falli miseramente a causa delle «donnicciuole» che alcuni avevano già in casa ed altri desideravano prendere.
Intanto la meditazione della Scrittura, a cui si era dedicato di nuovo, mise Agostino in contatto con l'invito di Gesù alla castità volontaria per amore del regno dei cieli, e con il consiglio dell'Apostolo, che confermava quell'invito e vi aggiungeva, come stimolo ad accettarlo, il suo stesso esempio.
Le parole della Scrittura scesero nell'animo come carboni ardenti e vi inflissero una tale scottatura da togliere ad Agostino ogni possibilità di pace. Non erano più, queste, le parole dell'umana filosofia, ma le parole divine del Maestro e Salvatore degli uomini; parole troppo contrarie alle sue abitudini, eppure terribilmente conformi alle sue aspirazioni.
Le «due volontà», quella spirituale, che voleva rompere ogni legame per volare all'amplesso della sapienza, e quella carnale, che s'indugiava sulle vecchie abitudini e tentava di giustificarle, entrarono in collisione violenta: «...ero ben sicuro che fosse meglio consacrarmi al tuo amore, che cedere alla mia passione; ma se l'uno mi piaceva e vinceva, l'altro mi attraeva e avvinceva... dovunque facevi brillare ai miei occhi la verità delle tue parole, ma io, convinto della loro verità, non sapevo affatto cosa rispondere, se non, al più, qualche frase lenta e sonnolenta: "Fra breve", "Ecco, fra breve", "Attendi un pochino". Però quei "breve" e "breve" non avevano breve durata, e quell' "attendi un pochino" andava per le lunghe».