Lettere di Ignazio di Antiochia. Lettere e martirio di Policarpo di Smirne
(Minima) [Libro in brossura]EAN 9788831114448
INTRODUZIONE
Ignazio e Policarpo sono ancora oggi venerati dalla Chiesa universale come grandi santi dell'età apostolica. Come la loro vita fu sempre ammirata per la sua santità e la loro morte venerata per la corona del martirio, così i loro scritti furono sempre ritenuti dalla Chiesa preziose testimonianze del magistero apostolico e del cristianesimo delle origini.
Sia Ignazio che Policarpo furono vescovi, sia l'uno che l'altro furono in contatto diretto con gli apostoli di Cristo, entrambi infine subirono il martirio per la fede.
LE LETTERE DI IGNAZIO
Di Ignazio dice Girolamo che fu «il terzo vescovo della Chiesa di Antiochia dopo l'apostolo Pietro» (De viris illustribus, XVI). Denunciato come cristiano, fu condotto prigioniero a Roma, dove fu dato in pasto alle belve del circo: «subì il martirio nell'anno undicesimo di Traiano» (ibid.), cioè probabilmente nel 107. Secondo la tradizione «i suoi resti mortali riposano ad Antiochia, nel cimitero che si trova fuori dalla porta Dafnitica» (ibid.).
Nel suo lungo viaggio verso Roma, «attraversando l'Asia, sebbene sotto una strettissima sorveglianza di una scorta, rinvigoriva con discorsi ed esortazioni la fede delle diocesi in ogni città in cui si fermava [...], raccomandando di attenersi alla tradizione apostolica» (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, III, 36, 4). «Giunto per mare a Smirne, di cui era vescovo Policarpo, discepolo di Giovanni, scrisse una lettera agli efesini, una ai magnesi, una ai tralliani e una ai romani» (Girolamo, De viris illustribus, XVI). «Lasciata poi Smirne, giunse nella Troade, da dove inviò una lettera alla Chiesa di Filadelfia e alla Chiesa di Smirne, e poi in particolare una a Policarpo [...], dandogli in custodia il gregge di Antiochia» (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, III, 36, 10). Queste sette lettere, menzionate già dagli storici antichi, costituiscono appunto le celebri e preziose Lettere di Ignazio che presentiamo in questo volume.
Nella Lettera agli efesini, che egli, pur essendo vescovo, chiama suoi «condiscepoli» (III, 1), Ignazio affronta diversi temi, e soprattutto quello a lui forse più caro: l'importanza dell'unione della Chiesa con il proprio vescovo. «Occorre onorare il vescovo come il Signore stesso» (VI, 1). In particolare, poi, i sacerdoti devono essere «uniti al vescovo come le corde alla cetra» (IV, 1). Alla concordia in seno alla Chiesa Ignazio affianca però anche il corretto e umile atteggiamento verso gli erranti: «Per gli altri uomini pregate senza interruzione. In loro vi è speranza di conversione perché trovino Dio. Lasciate che imparino dalle vostre opere. Davanti alla loro ira siate miti; alla loro megalomania siate umili, alle loro bestemmie opponete le vostre preghiere» (X, 1-2). Infine il Santo esorta gli efesini a riunirsi spesso per la celebrazione dell'Eucaristia (XIII, 1 e XX, 2) e a mantenere in armonia e concordia le famiglie (XVI, 1).
La Lettera ai magnesi riprende il tema della gerarchia ecclesiastica: «Nulla fate senza il vescovo e i presbiteri» (VII, 1). È ormai del tutto chiara e consolidata la distinzione dei tre ordini del clero: «Con la guida del vescovo al posto di Dio, e dei presbiteri al posto del collegio apostolico, e dei diaconi a me carissimi» (VI, 1). Ogni cristiano — dice Ignazio — deve essere «sottomesso al vescovo come alla grazia di Dio e al presbitero come alla legge di Gesù Cristo» (II). Sebbene sottolinei in maniera così forte l'autorità episcopale, egli però, che pure era vescovo, scrive ai suoi destinatari con grande umiltà: «Pur a voi inferiore, voglio mettervi in guardia» (XI). Ciò da cui in particolare Ignazio vuole mettere in guardia i magnesi è l'atteggiamento giudaizzante e farisaico non solo degli ebrei, ma anche di non pochi cristiani (VIII, 10).
Nella Lettera ai tralliani il tema della gerarchia ecclesiastica assume toni ancora più incisivi: «Tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come anche il vescovo che è l'immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio di Dio e come il collegio degli apostoli. Senza di loro non c'è Chiesa» (III, 1). E ancora: «Chiunque operi separatamente dal vescovo, dal presbitero e dai diaconi, non è puro nella coscienza» (VII, 2). Questa centralità del clero ha il suo fondamento «nella pienezza del carattere apostolico» (prol.) della Rivelazione cristiana. La Fede è la fede insegnata da Cristo e tramandata dagli apostoli ed è custodita dai loro successori, i vescovi. Per questo Ignazio raccomanda ai fedeli della Chiesa di Tralli: «Prendete solo l'alimento cristiano e astenetevi dall'erba estranea che è l'eresia» (VI, 1).
Carattere del tutto particolare ha invece la Lettera ai romani. Dopo un breve prologo, in cui sottolinea il primato e la gloria della Chiesa di Roma, Ignazio si rivolge, con toni insolitamente accorati, ai cristiani di Roma, per supplicarli di non intercedere a suo favore per evitare la sua esecuzione. Egli è consapevole che è per amore che i fedeli di Roma vogliono liberarlo dalla pena di morte, ma «temo — dice — che il vostro amore mi sia nocivo» (I, 2). Già scrivendo ai tralliani aveva annunciato la sua fervente brama di martirio, congiunta a una profonda umiltà: «Desidero soffrire, ma non so se ne sono degno» (IV, 2). Ora, rivolgendosi ai romani, li supplica: «Non avrò più un'occasione come questa di raggiungere Dio, né voi, pur a tacere, avreste a sottoscrivere un'opera migliore. Se voi tacerete per me io diventerò di Dio [...]. È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in lui» (II, 1-2). E prosegue: «Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo e io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio» (IV, 1-2). Si augura che le belve del circo gli si avventino addosso presto e anelando di amore verso Dio, grida: «Il mio rinascere è vicino!» (VI, 1).
La Lettera ai romani è un vero inno al martirio. «Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo!» (v, 3).
In realtà in tutte le lettere di Ignazio si respira questo ardente amore per Dio, questo desiderio travolgente di essere «inchiodato nel corpo e nell'anima alla croce di Gesù Cristo» (I, 1), e in tutte ugualmente si respira una meravigliosa umiltà.
Quanto alle lettere scritte dalla Troade, abbiamo quel la Ai filadelfiesi, che riprende il tema dei cristiani giudaizzanti e del rapporto tra il cristianesimo e la Legge mosaica (V-VI), nonché quello dell'obbedienza al clero: «State uniti al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi», poiché «uno è l'altare come uno solo il vescovo con il presbiterato e i diaconi» (VII, 1 e IV).
La Lettera agli smirnesi comincia con una professione di fede nell'incarnazione di Cristo, che è «nato realmente dalla Vergine», «per noi fu veramente inchiodato nella carne» e «soffrì realmente come realmente risuscitò» (I-II); professione di fede che prosegue con l'aperta dichiarazione che veramente «l'eucaristia è la carne del nostro salvatore Gesù Cristo» (VII, 1). Realtà, queste, che gli eretici negano. Per cui — dice Iganzio — «conviene star da essi lontano e non parlare [con essi] né in privato né in pubblico, per seguire invece i Profeti e specialmente il Vangelo» (VII, 2).
Questa lettera, poi, ribadisce ancora una volta, ma in chiave più "teologica" e in connessione con il mistero eucaristico, la centralità della figura del vescovo: «Nessuno senza il vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida l'eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c'è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica. Senza il vescovo non è lecito né battezzare né fare l'agape; quello che egli approva è gradito a Dio» (VIII, 1-2).
Ma ormai i giorni in cui deve essere messo a morte e divorato dalle belve si avvicinano. Ignazio ne è conscio. Vi accenna rapidamente: «Vicino alla spada sono vicino a Dio, vicino alle belve sono vicino a Dio» (IV 2).
L'ultima delle sette lettere autentiche di sant'Ignazio è quella che egli, da Troade, scrisse a Policarpo, vescovo di Smirne. È uno scritto a carattere precipuamente pastorale. Ignazio vi esorta il confratello a occuparsi delle vedove indigenti e degli schiavi, e gli dà consigli sul modo di esortare a una vita santa e cristiana i lavoratori e gli sposi (IV-V). «Sopporta tutti — dice — come il Signore sopporta anche te» (I, 2). Neppure in questa lettera, infine, manca l'appassionato richiamo a stare sottomessi ai tre gradi della gerarchia ecclesiastica, un tema che, come abbiamo visto, stava particolarmente a cuore a Ignazio.
Le lettere di Ignazio ci sono pervenute in due manoscritti: il Mediceus dell'XI secolo e il Colbertinus del X secolo.
LE LETTERE E IL MARTIRIO DI POLICARPO
Quanto a Policarpo, nato verso il 65 d. C. e «discepolo dell'apostolo Giovanni e da lui costituito vescovo di Smirne, era considerato il personaggio più importante di tutta l'Asia. Infatti egli ebbe come maestri e poté frequentare alcuni degli apostoli e di quelli che avevano conosciuto il Signore» (Girolamo, De viris illustribus, XVII). Figura davvero eccezionale del cristianesimo delle origini, Policarpo rappresentò un vero e proprio anello di congiunzione tra gli apostoli di Gesù e la prima generazione dei Padri della Chiesa. Il grande Ireneo di Lione, ad esempio, dice esplicitamente: «Lo potei conoscere nella mia fanciullezza» (Ire-neo, Adversus haereses, III, 3, 4), ed Eusebio conferma che Ireneo «in giovane età era stato discepolo di Policarpo» (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, V, 5, 8).
Più tardi, «a causa di certe questioni riguardanti la data della Pasqua, sotto l'imperatore Antonino Pio, mentre la Chiesa romana era governata da Aniceto, andò a Roma e vi riportò alla fede moltissimi cristiani» (Girolamo, De viris illustribus, XVII). L'anno seguente, e precisamente il 22 (o 23) febbraio del 155, subì il martirio, arso vivo nell'anfiteatro di Smirne.
Già Ireneo attesta che «esiste tuttora una lettera assai preziosa di Policarpo ai filippesi» (Ireneo, Adversus haereses, III, 3, 4). E l'unico scritto che possediamo di questo santo. Egli la scrisse nel 107, proprio allorché passò da Smirne Ignazio, diretto verso Roma. I cristiani di Filippi avevano chiesto a Policarpo di inviar loro le lettere di Ignazio. Egli acconsentì e le accompagnò con una lettera di suo pugno: «Come ci avete chiesto, vi mandiamo le lettere di Ignazio indirizzate a noi da lui e quante altre abbiamo con noi. Sono accluse a questa» (XIII, 2).
Nella sua lettera, Policarpo tocca diversi temi: l'autorità delle lettere di san Paolo (III, 2), i doveri delle mogli cristiane e delle vedove (IV), l'immoralità della lussuria e dell'omosessualità (V), l'importanza della pratica del digiuno (VII), il dovere di comportarsi in maniera esemplare nei confronti dei pagani (X). Riguardo a coloro che sono nell'errore, egli dice: «Non trattateli come nemici, ma, come membra sofferenti e sviate, richiamateli» (XI, 4). Nella conclusione Policarpo, destinato a essere ucciso barbaramente dall'autorità imperiale, raccomanda: «Pregate anche per i re, per i magistrati e i principi, per quelli che vi perseguitano e vi odiano e per i nemici della croce» (XII, 3). Questi scritti dei Padri apostolici ci fanno davvero respirare l'ardore di fede e di anelito a Dio che caratterizzava i primi cristiani.
Quanto al Martirio di san Policarpo, fu redatto, probabilmente da un testimone oculare nel 156, l'anno successivo all'evento, e si presenta come lettera della comunità di Smirne a quella di Filomelio di Frigia. Già Eusebio parla di un «racconto della sua morte, custodito per iscritto ancora aí nostri giorni» (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, W, 15, 1). La narrazione è molto toccante. L'arresto di Policarpo, ormai vescovo ottantaseienne, viene presentato con tratti simili all'arresto di Cristo al Getsemani. «Arrivando verso sera — dice il testo, che ama soffermarsi sui dettagli —, lo trovarono coricato in una casetta al piano superiore» (VII, 1). La sua fedeltà a Cristo gli costò la vita. Nonostante la veneranda età e la dignità di vescovo, i soldati lo trascinarono nell'anfiteatro di Smirne, sua città, ersero la pira e, «con le mani dietro la schiena e legato come un capro» (XIV, 1), lo bruciarono vivo. Le sue ultime parole, sulla pira, erano state: «Signore, Dio onnipotente E...], io ti benedico perché mi hai reso degno di questo giorno e di questa ora, di prendere parte nel numero dei martiri al calice del tuo Cristo per la resurrezione della vita eterna» (XIV, 2).
La Lettera ai filippesi ci è conservata principalmente dal manoscritto Vat. Graec. 859 del IX secolo. Il Martirio invece ha il suo miglior manoscritto nel Codice Mosquensis del XIII secolo.
DAG TESSORE
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Albanese Pasquale il 12 aprile 2013 alle 19:19 ha scritto:
Rex gloriose martyrum,/corona confitentium,/ qui respuentes terrea/ perducis ad celestia.
Si, perchè gli autori eminentissimi di questo "MINIMUM" della Città Nuova sono martiri, testimoni (con la vita con gli scritti, con tutta la carne portata fino all'estrema effusione del sangue). Sicchè tra tute le stelle che brillano nella candida schiera dei martiri due sono quelle che brillano di una luce precipua: IGNAZIO DI ANTIOCHIA e POLICARPO DI SMIRNE. Ignazio, pervaso da una volontà di uniformarsi alla testimonianza del Cristo, tanto da desiderare, naelare il sospirato martirio; e Policarpo, dalla cui pira sacrificale ancora si spande un profumo come di incenso. Basta con le parole, solo un invito: se è vero che Napoleone Bonaparte dormiva con le biografie dei grandi condottieri del passato sotto il cuscino, allora è obbligo per ogni cristiano avere sempre con se una copia degli scritti di chi realmente ci precede nella Galilea dei Santi.
Luca Zavalloni il 24 agosto 2018 alle 11:00 ha scritto:
Un piccolo libretto con le lettere di San Ignazio e di San Policarpo, che non hanno esitato a offrire la loro vita seguendo Cristo sulla via del martiro e rendendoGli testimonianza a favore della Chiesa loro affidata.
Catechista ANDREA BONZANO il 1 settembre 2019 alle 09:54 ha scritto:
Con l'espressione Lettere di Ignazio si intendono sette lettere attribuite al vescovo e martire Ignazio di Antiochia (? 107-110), detto L'Illuminatore, scritte in greco nei primi anni del II secolo. Dalla tradizione cristiana e dagli studiosi contemporanei sono ritenute autentiche. Non essendo incluse nel canone della Bibbia sono considerate come apocrifi del Nuovo Testamento. Oggi sono incluse nella cosiddetta letteratura subapostolica (letteratura dei successori degli apostoli).
Ignazio, per primo nella letteratura cristiana, attribuisce alla Chiesa l'appellativo «cattolica», cioè «universale»: "Dove è Gesù Cristo, lì è la Chiesa cattolica".
Studente Marco Marinelli, marchiuz@hotmail.it il 16 luglio 2020 alle 09:23 ha scritto:
Preziosissimo! In questi scritti è visibile, in filigrana, la vita di due grandi e santi vescovi. È quasi palpabile la passione, la dedizione e il coinvolgimento con e per Cristo. Alla fine della lettura non si può fare a meno di sostare e chiedersi: e io, oggi?