L'identità in cammino
-Povertà e penitenza, predicazione e studi nello sviluppo dei testi legislativi dei frati Minori (secoli XIII-XVI)
(Convivium assisiense. Sez. Itinera franciscana)EAN 9788830814165
Il volume raccoglie le lezioni di quattro noti francescanisti tenute a fine settembre 2013 ad Assisi, al ‘‘Corso estivo di francescanesimo’’ promosso dalle famiglie francescane del Centro Italia e dall’Istituto Teologico di Assisi. Dopo il corso dell’anno precedente sulla Regola quale testo identitario, si è voluto approfondire alcuni temi fondamentali della vita francescana nel loro passaggio e sviluppo dal testo fondativo alle diverse costituzioni, con le norme via via lungo i primi tre secoli dell’Ordine giuridicamente sancite per incarnare nella concretezza della vita l’altissimo ideale del serafico Padre. Le questioni poste sono: come vivere la povertà radicale in una fraternità fin dagli inizi tanto estesa e complessa?; come gestire nello spirito del Vangelo le necessarie penalità su dei membri erranti?; come annunciare in modo adeguato la parola salvifica di Cristo nella Chiesa e nella società del tempo?; è possibile predicare senza una seria preparazione di studio e frequentazione di biblioteche, nonostante le diffidenze in materia ripetutamente esplicitate dal fondatore?
Nell’Introduzione (pp. 5-16) il curatore fornisce una sintesi degli interventi, rilevando alcuni snodi essenziali della vicenda storica con i quali ogni relatore ha dovuto confrontarsi per illustrare l’evoluzione del proprio tema: la Regula bullata del 1223; le prime costituzioni redatte nel capitolo del 1239 dopo la ‘‘defenestrazione’’ di frate Elia; la riorganizzazione di tutto l’ampio e disperso materiale normativo capitolare prodotto fino al 1257, sistemato da san Bonaventura in dodici rubriche (= capitoli) e approvato a Narbona nel 1260 con le Constitutiones narbonenses, vera pietra miliare e modello delle moltepici germinazioni legislative successive; quindi la svolta impressa nelle costituzioni del Capestrano (1443-1449) dopo la rottura dell’unità dell’Ordine con la raggiunta totale autonomia de facto dell’Osservanza; infine, il ritorno alle origini con la ‘‘bella e santa riforma’’ della neonata famiglia cappuccina, le cui iniziali costituzioni cosiddette di Sant’Eufemia (1536), nella loro profonda caratura di spiritualità e saggezza pratica hanno sfidato i tempi, giungendo fino al Vaticano II.
Nell’apertura del corso Luigi Pellegrini ha presentato un’inquadratura storica (pp. 17-33), tracciando dapprima ‘‘il lungo e tortuoso cammino della Regola’’ dall’originaria ‘‘forma vitae’’ del 1209 a quella ‘‘bullata’’ del 1223, mettendo in luce come la progressiva trasformazione della ‘‘fraternitas’’ nel quindicennio intercorso abbia portato alla redazione finale che si configura quasi l’istituzione di un altro ‘‘ordine’’, omologato alla conventualità in uso nel tempo, oltrepassando pertanto la primitiva ‘‘intentio’’ di Francesco. Nell’analisi del passaggio dalla Regola alle costituzioni, Pellegrini richiama i primi tentativi costituzionali del capitolo del 1219/20, subito sconfessati dal fondatore; accenna alle interpretazioni e disposizioni ufficiali di Gregorio IX impartite dopo la famosa delegazione capitolare del 1230; si sofferma invece con maggiore ampiezza sul primo nucleo essenziale normativo uscito dal capitolo del 1239, appena di recente parzialmente recuperato in due importanti ‘‘frammenti’’ dalla tenace e amorosa ricerca di padre Cesare Cenci, con altre ‘‘particulae’’ e ‘‘vestigia’’ superstiti, dai quali traspaiono già le direttive pratiche poi riprese interamente da san Bonaventura nelle Narbonesi del 1260. Già nel ’39 si interveniva con preoccupazione sugli eccessi edilizi nella costruzione di conventi e di chiese (vietate coperture a volta, finestre istoriate, torri campanarie a sé stanti e campane oltre i cento chilogrammi,), sul costoso acquisto di libri portatili personali, sulla liturgia e gli studi, ecc.; particolarmente significativo risulta il comma sulla selezione dei candidati da accogliere nell’Ordine che rivela la rigida clericalizzazione di una fraternità, divenuta ormai meno fraterna.
Le relazioni successive hanno affrontato temi più specifici. Felice Accrocca si è concentrato su ‘‘La povertà delle chiese nella legislazione dell’Ordine francescano’’ (pp. 35-71), rimarcando la grande utilità dell’analisi delle fonti giuridiche per comprendere il tenore della vita quotidiana dei frati, in quanto l’insistenza del legislatore su certi punti – quali l’uso del denaro, il lusso delle abitazioni, la ricerca dei titoli di studio, ecc. – e l’irrogazione delle pene relative, sono l’evidente spia di prassi devianti nella comunità. Egli ricorda innanzitutto che per san Francesco l’unica regola dei frati Minori doveva restare solo il Vangelo; la Regola del 1223 e il Testamento del ’26 rappresentavano unicamente dei mezzi per una vita evangelica e dovevano restare intangibili, escludendo qualsiasi dispensa al fine di ottenere case o chiese affidate ai frati. Grande disagio, infatti, provarono i primi compagni allorché videro sorgere la maestosa chiesa sulla tomba del Santo, e forte dissenso manifestarono alla sua elevazione a ‘‘capo e madre’’ di tutto l’Ordine minoritico, titolo che caso mai sarebbe spettato alla Porziuncola.
La storia, tuttavia, spingeva in un’altra direzione. L’espansione numerica e geografica, le varie missioni e funzioni pastorali assegnate dalla Santa Sede ai membri dell’Ordine, il nuovo contesto culturale europeo nel quale vivevano, fin dagli anni ’40 sollecitarono i frati Minori, con l’autorizzazione dei pontefici, a insediarsi in conventi e accettare o costruire nuove chiese per la predicazione e il ministero delle confessioni: un grande fervore edilizio connota tutta la seconda metà del Duecento e le prime decadi del Trecento. Ovviamente, in questa nuova situazione era facile entrare in conflitto con la povertà, tanto raccomandata dal serafico Padre, ed è per arginare superfluità e ricercatezze negli edifici che dalle costituzioni di Narbona in poi viene continuamente confermato inoltre il divieto «di ostentare pitture, ornamenti, finestre, colonnati, e di innalzare edifici superflui quanto a misure e spazi, secondo la consuetudine di vari luoghi» (p. 54). Nonostante il rincaro delle ispezioni e delle punizioni dei disobbedienti segnalati dai visitatori, i limiti imposti all’edilizia saltarono presto e nei capitoli di fine secolo non vennero nemmeno codificati, accentuando in tal modo lo scontro interno sempre più aspro tra la corrente degli spirituali e quella della comunità, come appare dall’accusa di Ubertino al concilio di Vienne che i frati costruivano conventi somiglianti piuttosto a ‘‘palazzi di re’’.
Nelle costituzioni successive, dalle ‘‘farinerie’’ del 1354 alle ‘‘martiniane’’ del 1430, il giudizio sui criteri di povertà nell’edilizia e la licenza di costruire vennero commessi alla vigilanza dei ministri, tralasciando i precedenti dettagli normativi. In questa linea si muovono anche le costituzioni di Giovanni da Capestrano (1449), nelle quali si vieta pure di dismettere chiese o conventi sebbene imponenti e ricercati, sconfessando in un certo senso la polemica condotta fino allora contro la comunità. Sennonché, poco dopo la definitiva separazione nel 1517 degli osservanti dai frati della comunità (= i conventuali), una nuova ‘‘spinta centrifuga’’ staccò dall’Osservanza la famiglia dei cappuccini (1528). Le loro costituzioni del 1536, strutturate secondo il contenuto dei dodici capitoli della Regola e segnate da una profonda ispirazione biblico-teologica, per quanto riguarda lo stile delle costruzioni sia dei ‘‘luoghi’’ sia delle chiese sanciscono relativamente ai materiali e alle misure un pieno ritorno all’originario ideale di san Francesco, escludendo rigorosamente tutto ciò che non fosse conforme ‘‘al povero viver nostro’’ (p. 65).
Con la sua riconosciuta competenza Pietro Maranesi ha svolto un tema suggestivo e delicato a un tempo: ‘‘La penitenza spazio di fraternità. Il processo penitenziale nella Regola e nelle Costituzioni minoritiche’’ (pp. 73-132). Dev’essere stato con sorpresa, egli annota, che dopo il fervore delle prime stagioni Francesco e i suoi compagni avvertirono di dover fare i conti con l’esperienza della tentazione, della fragilità e del peccato tra i frati; è per noi quindi di grande interesse comprendere il processo penitenziale e lo spirito con il quale dev’essere compiuto seguendo l’intenzione primigenia del fondatore nel capitolo V della prima Regola (1221), poi giuridicamente riformulata nel capitolo VII di quella del 1223. Nel passaggio tra le due si nota una riduzione del testo da 17 a soli 3 versetti, dovuta all’intervento forte e preciso di un aiuto-legislatore che ha inteso eliminare nel processo sulle colpe una gestione soggettiva e arbitraria sia della comunità, sia di un ministro subalterno, per riportarlo ai criteri oggettivi del diritto della Chiesa mediante la certezza sui delitti prestabiliti e la legittimità del superiore ministro. «Io credo, commenta Maranesi, che nella riscrittura delle norme penali Francesco abbia avuto accanto a sé l’esperienza e la preparazione canonica del cardinale Ugolino. È possibile ritenere che il prelato avrà fortemente condizionato e determinato la correzione di una impostazione evangelica iniziale tanto bella quanto pericolosa; essa infatti non poteva assicurare totalmente la serenità delle relazioni all’interno di un grande e complesso Ordine su di una materia alquanto delicata e difficile quale era il peccato dei frati» (pp. 81-82).
Quanto lungamente Francesco aveva raccomandato nel 1221 circa lo spirito della correzione fraterna, nella redazione finale del ’23 è stato sinteticamente compresso in un solo versetto, con l’ammonizione ai ministri di guardarsi dall’ira e dal turbamento di fronte al peccato dei fratelli in quanto tali sentimenti impediscono la carità. Rimaneva qui appena l’essenziale del pensiero e del cuore del serafico Padre, da lui emblematicamente chiarito anche nella coeva ‘‘Lettera a un ministro’’, il quale di fronte al peccatore deve solo provare misericordia come dinanzi a un malato, coinvolgersi con lui con umiltà e grande libertà interiore, senza alcuna pretesa dominativa nei suoi confronti, preoccupato solo di donargli guarigione e pace. Nella Regola definitiva «questo sogno evangelico viene sostituito dal realismo giuridico» (p. 95); tuttavia, pure in questa permane qualcosa della sensibilità del fondatore, poiché vi si nota ancora una certa tensione tra la misericordia che guarisce e la giustizia che deve oltrepassare il sentire soggettivo e l’arbitrarietà delle decisioni.
Per verificare come questa ‘‘eredità spirituale e giuridica’’ sanfrancescana, tutta imperniata sulla misericordia evangelica, sia stata recepita nei primi tre secoli della storia dell’Ordine, il relatore prendeva in esame le costituzioni Narbonesi (1260), quelle del Capestrano (1449) e quelle cappuccine (1536). Nelle prime due egli nota la ripresa del solo aspetto giuridico del processo penale, con la gradualità delle pene commisurate sulla gravità dei delitti, sotto la diretta responsabilità applicativa del ministro, ma con l’oblio completo del riferimento alla sua base spirituale. Nella rubrica VII delle Narbonesi, personalmente rielaborata da san Bonaventura e introdotta nel prologo con l’immagine della siepe della disciplina che protegge dalle incursioni maligne nel Regno dei cieli, nella lunga serie delle infrazioni e gravi sanzioni fino alla perdita degli uffici e all’espulsione, soltanto «l’oggettività e la precisione del procedimento penale costituiscono la vera e unica preoccupazione del testo» (p. 110); vengono ignorati invece il sentimento di pace interiore e l’empatia del ministro richiesti nell’esercitare il servizio dell’autorità ai confratelli nel peccato. Altrettanto vale anche per le costituzioni capestranesi, ristrutturate formalmente sui contenuti dei dodici capitoli della Regola e scandite da un ricorrente autoritario ‘‘dico et ordino’’ con cui «l’ideologo principale dell’identità della grande Osservanza» (p. 111), da buon giurista, mirava innanzitutto a fornire norme penali chiare e precise (compresa la punizione anche fisica, purché non eseguita da frati presbiteri) per l’osservanza della Regola, sotto l’attenta sorveglianza dei vicari. Soltanto nelle costituzioni cappuccine lo stile e il metodo del processo penale segnano il ritorno all’originaria intenzione sanfrancescana, rivolgendosi quasi esclusivamente ai ministri affinché si mettessero nella giusta disposizione interiore per esercitare il loro ufficio verso i frati peccatori con misericordia e giustizia, secondo il modello offerto da Cristo nel Vangelo.
L’ufficio della predicazione e la necessità degli studi sono stati l’oggetto della lezione di Luciano Bertazzo, affermando fin dal titolo iniziale la loro reciproca implicazione: ‘‘Predicare e studiare: studiare per predicare’’ (pp. 133-173), perché se non si sono mai avute difficoltà a vedere nella predicazione un elemento carismatico dell’identità dell’Ordine, soltanto a fatica e con molte inquietudini è stata invece riconosciuta la complementarità dello studio. Il relatore ha dovunto quindi verificare dapprima ‘‘l’intentio beati Francisci’’, operante in un contesto ecclesiale nel quale la parola di Dio era ritornata nelle chiese e nelle piazze, dove anche il poverello di Assisi con l’autorizzazione di Innocenzo III annunciava con passione il Vangelo mediante l’esempio della sua vita e con semplicità di parole esortando il popolo alla penitenza (= alla conversione). Questo tipo di predicazione penitenziale, assieme al lavoro e alla preghiera, era il compito che egli aveva assegnato ai suoi frati, come traspare dal capitolo XVII della Regola non bollata (1221), ammonendoli di svolgere quest’ufficio con umiltà, santità interiore dello spirito, piena disponibilità al distacco alla voce dell’obbedienza, senza gloriarsi dei frutti spirituali della loro fatica, ingiustamente appropriandosi di un merito non nostro. Due anni dopo però, nel capitolo IX della Regola bollata, ottemperando in tutto ai canoni del Lateranense IV, la sua normativa ben mirata circa l’autorizzazione, i contenuti e il metodo suppone il trapasso dall’iniziale predicazione penitenziale generica a una forma di evangelizzazione da professionisti seriamente preparati, sull’esempio di sant’Antonio di Padova, al quale Francesco aveva concesso il permesso d’insegnare teologia (= la Bibbia) ai frati.
Senza dubbio, egli riconosceva l’importanza e la necessità dei teologi, ma con trepidazione temeva che i suoi frati dediti a quest’ufficio si chiudessero in una casta elitaria, autoreferenziale, rinnegando la povertà dello spirito e la fraternità; da qui nascevano le oscillazioni dei suoi interventi ora affermativi ora negativi sul tema dello studio, nella «consapevolezza di un’ambiguità della cultura quando eccede al solo amministrare le parole divine, per diventare fine a se stessa, come chiaramente espresso nell’Ammonizione VII» e nella prescrizione ai ‘‘nescientes litteras’’ di non preoccuparsi d’impararle (pp. 142-143). Nel ventennio successivo alla morte del fondatore un’inquietudine strisciante ancor più accentuata pervase gli scritti dei primi compagni, decisamente avversi ai libri (inutili e ostacoli alla carità) e all’evoluzione della fraternità sollecitata dai papi e guidata dallo stesso governo centrale dell’Ordine. Tra gl’impegni della fraternità Innocenzo IV nella bolla Ordinem vestrum (1245) annoverava primariamente la predicazione, alla pratica della quale ovviamente occorreva la scienza, richiedente lo studio e l’uso dei libri. Nella risposta al quesito di un maestro innominato, alcuni anni più tardi sarà Bonaventura a placare alquanto i dubbi di coscienza circa l’uso dei libri mediante il chiaro sillogismo per cui se la Regola commette l’ufficio della predicazione, e questa non si fa con le favole ma con le parole divine apprese dalla Bibbia e dai libri, ne segue che «la perfezione della Regola esige, come di predicare, così di avere dei libri»; né ciò contrasta con la povertà dell’Ordine, come non contrastano i messali per la messa o i breviari per le ore (cf. p. 148).
Tale fu la linea adottata nelle costituzioni del 1260 a Narbona; ma lo scontro tra le due anime dell’Ordine, quella legata al ‘‘mito delle origini’’ e quella flessibile alle nuove esigenze della società e della Chiesa, si trascinò penosamente fino alla metà del Quattrocento, freneticamente producendo nuovi tentativi costituzionali nel sempre vanificato intento di ricomporre una unità dell’Ordine «nella memoria e nella santità condivisa»; l’epilogo è raggiunto nelle costituzioni assisane del 1430, dette ‘‘martiniane’’ perché approvate da Martino V. Ormai, però, la maturazione dell’anima osservante e la progressiva organizzazione dei suoi quadri interni nel 1449 trovavano la loro autonoma espressione anche giuridica nelle costituzioni di Giovanni da Capestrano per i cismontani, e in quelle di Barcellona nel 1451 per l’Osservanza ultramontana. In ambedue lo studio non è più un problema; contro le avversioni residue di taluni spirituali verso i libri, il capestranese opponeva seccamente che il serafico Padre in nessuna parte aveva condannato lo studio, coltivato del resto nella stessa prima generazione minoritica; riprendendo la soluzione bonaventuriana salutava il circolo virtuoso studio-predicazione, imponendolo in ogni provincia con la raccomandazione ai vicari di non distrarre con altre incombenze quelli che si preparavano per l’annuncio delle «santissime parole di vita». I fondatori della nuova famiglia cappuccina uscita da un’Osservanza, a loro dire troppo forte e autosufficiente, ebbero molta esitazione nei confronti degli studi (costituzioni di Albacina, 1529), limitandoli alla sola lettura della Bibbia e di qualche libretto devoto; ma quasi subito, nel ’36, l’equipe che preparò il nuovo testo a Roma, formata da personalità acculturate di spicco, operò una rapida svolta riconoscendo la propria identità nella predicazione e nella missione pastorale, condotte con la semplicità e il calore della devozione che scorge in Cristo crocifisso il libro e la sapienza suprema di riferimento del proprio lavoro.#Dopo un veloce ‘‘excursus’’ sulla travagliata storia costituzionale dei conventuali (pp. 160-163), non tanto a motivo degli studi, per i quali essi avevano promosso nei secoli l’originaria impostazione bonaventuriana, quanto per la resistenza alle riforme interne, accettando infine una codificazione unitaria postridentina con le costituzioni ‘‘urbaniane’’ del 1628, Bertazzo accenna alla riformulazione delle costituzioni delle tre famiglie francescane alla luce dei ‘‘segni dei tempi’’, richiesta dal concilio Vaticano II. Questa impegnativa revisione ha fatto comunitariamente riscoprire ‘‘la grazia delle origini’’, felicemente sintetizzata dall’autore nella seguente conclusione: «Vari elementi accomunano lo spirito delle varie costituzioni: la ricerca dell’identità francescana, grazie al riferimento costante alle Fonti francescane tornate a essere la sorgente ispirativa nella complessità pastorale delle varie situazioni; il desiderio di una reciproca collaborazione tra le Famiglie, consapevoli dell’unica identità fondamentale, ossia la figura e la Regola dell’unico serafico Padre Francesco, con la memoria della storia che, se può essere stata un peso, è stata anche una ricchezza sinfonica di una diversità nell’unità» (p. 167).
Tratto dalla Rivista "Il Santo. Rivista francescana di storia dottrina arte" LV, 2015, fasc. 1-2
(http://www.centrostudiantoniani.it/)
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