Il credere cristiano. Una teologia fondamentale
(Teologia/Strumenti) [Libro in brossura]EAN 9788830810365
Come si evince già dal titolo, l’angolatura particolare della teologia fondamentale (TF) presentata nel volume di F. Cappa è rappresentata dal tema della fede. La TF, infatti, nell’assolvere al suo precipuo compito di elaborare il sapere della fede (le condizioni di intelleggibilità e le giustificazioni argomentative della fede) non deve rinunciare all’analisi rigorosa e al rispetto della peculiarità della natura delle fede che, intesa nell’orizzonte del paradigma dell’abbandono totale al Padre di Gesù, assurge al ruolo strategico di categoria fondamentale per la costituzione del soggetto teologico-credente, intesa come fenomenologia della coscienza credente che individua la dinamica del credere nell’ambito dato della rivelazione. È proprio l’evento originario dell’esperienza di Gesù di Nazaret, come buona relazione con Dio, ad essere fondativo di ogni riflessione sulla fede e riferimento vincolante per ogni elaborazione teorica che possa considerarsi cristiana. Dunque la fede (l’esperienza di Gesù) «può essere effettivamente assunta come punto di vista particolare per raccogliere i temi classici della TF e ridisegnare, al contempo, un concetto di fede cristiana capace di questa esperienza e che, nell’eccesso della polemica con il razionalismo moderno, si erano disseminati in altri momenti della riflessione teologica e filosofica» (p. 14). Il volume insomma è un trattato sulla fede che, del resto, è messa a tema nei quattro capitoli che lo costituiscono. All’inizio è posta una lunga introduzione a carattere storico che aiuta a rileggere il travaglio contemporaneo di una TF la quale alla ricerca di una propria identità sta oltrepassando l’eterodeterminazione del trattato di apologetica classica. Il cammino della TF si configura infatti come l’esigenza di superare la lunga stagione di un’apologetica costruita attorno ad una figura di rivelazione caratterizzata da una formalità oggettiva e dottrinalistica. In altre parole si tratta del bisogno di superare l’estrinsecismo cristallizatosi nel metodo neoscolastico che era costruito sul presupposto di una filosofia separata e sulla separazione-estraneazione sempre più radicale tra il fatto-forma della rivelazione e il suo contenuto. Come sappiamo già all’inizio del sec. XX la prima critica al protocollo apologetico tradizionale verteva sull’esigenza improcrastinabile di ridefinire il concetto di rivelazione superandone un’idea teoretico-istruttiva e di riportare l’attenzione ai “diritti della soggettività”, totalmente trascurati ed assenti nel modello basato sulla forma di razionalità illuministica e preoccupato di accertare sul piano della ragione separata dalla fede la possibilità di principio e la realtà storica della rivelazione, dimostrata la quale, quanto alla sua origine divina, l’uomo era tenuto all’obbedienza della fede all’autorità di Dio, garanzia della verità del contenuto rivelato non più argomentabile sul piano ancora della ragione (anche se interna alla fede) in forza della non-evidenza dei suoi contenuti. Al di là di tutto è proprio la figura della rivelazione e la polemica circa la sua legittimità emerse nella modernità ad aver rappresentato, tra il rinascimento e l’illuminismo, «il contesto culturale nel quale la teologia avverte come un’urgenza irrinunciabile la necessità di mettere a tema la funzione della ratio in ordine alla possibilità di affermare la credibilità della rivelazione cristiana e la certezza dell’atto di fede» (21). Vengono così ripercorse le diverse tappe della formazione del trattato di apologetica tradizionale individuando quegli snodi significativi dal punto di vista storico riconducibili all’avvento della modernità, avviata già nella crisi del modello scolastico dopo la sintesi di Tommaso (da Scoto a Occam) e poi con la svolta del sec. XV. Decisivo diventa il fenomeno dell’illuminismo che con la sua critica e alla religione e alla religione positiva (rivelata) configura l’orizzonte polemico e il quadro categoriale di riferimento che struttura la tripartizione del trattato di apologetica: legittimità della religione, certezza storica della rivelazione e quanto al suo essere avvenuta e quanto al suo essere custodita veritativamente nella storia. E mentre la TF si rimodella sempre più attorno alla categoria di rivelazione, progressivamente declinata in termini dottrinalistici, non mancano contestazioni e critiche che rivendicano un’estensione diversa della fede e della stessa idea di rivelazione, da Pascal a Fénelon (e prima ancora Bonaventura) fino a configurare le due opposte tentazioni del fideismo da un lato e del razionalismo dall’altro con le quali deve confrontarsi il Concilio Vaticano I nel tentativo di una delicata sintesi che difenda sia l’argomentabilità della fede sul piano della ragione e la dignità della stessa ragione, sia l’ulteriorità della fede rispetto ad ogni riduzione razionalistica (l’a. dedica alla Dei filius le pp. 60-68). Si giunge così al sec. XX con i suoi molteplici fermenti di rinnovamento che oscillano fra una centratura antropologica più effettiva (dal metodo dell’immanenza di Blondel al modello antropologico- trascendentale di Rahner) e una rivendicazione della irriducibilità della credibilità dell’evento cristiano a strutture antropologiche, essendo la forma della rivelazione del tutto definita teologicamente dall’evento di Cristo. Nel complesso dibattito post-Vaticano II, durante il quale la TF ha ancora una volta oscillato fra la tentazione di essere una sorta di pantologia teologica e il rischio di smarrire la qualifica stessa di disciplina teologica, l’a. vede oggi il compito di «conciliare un duplice interesse inevitabile per il cristianesimo: giustificare, attraverso un’analisi rigorosa, il sapere della fede e rispettare la peculiarità della natura di questo atto di per sé costitutivo dell’uomo. Si tratta cioè di prestare particolare attenzione a quella forma particolare della fede che nella rivelazione trova il proprio fondamento e la propria intrinseca coerenza per l’abilitazione alla testimonianza ecclesiastica confessante, come elemento costitutivo dell’uomo. Una testimonianza razionalmente pertinente e originariamente correlata alla forma dell’evento fondatore: Gesù Cristo» (p. 92). Dopo il primo capitolo in cui si riflette sulla fede in relazione alla sensibilità contemporanea e al pluralismo religioso, il cap. II (“Quale idea di fede?”) è quello centrale in cui emerge la peculiarità della proposta dell’autore. La fede, nell’inseparabilità delle due dimensioni (fides qua e fides quae) che la costituiscono definisce la forma di relazione teologale che emerge dall’instaurarsi di una buona relazione con Dio secondo quella particolare intenzione di cui Gesù di Nazaret attesta la pertinenza e l’effettività (cf. p. 131). Questo vuol dire anzitutto che il discorso sulla fede non può mai prescindere dalla ricostruzione fenomenologica dell’evento fondatore, la storia di Gesù di Nazaret consegnata nella ripresa memoriale che ne fanno i discepoli nella testimonianza evangelica; si tratta di entrare nella memoria Jesu che per la TF significa «entrare in quella particolare immagine che Gesù offre di sé e di Dio, tenendo conto di come una fede confessante – la testimonianza apostolica – riconosce una precisa identità e conferisce assolutezza a questa identità in una evidenza storica» (p. 148). Nel testo viene poi ricostruito l’evento relazionale (la sequela di Gesù come forma del rapporto dei discepoli con il Nazareno) che è all’origine della formazione dei Vangeli, il mistero pasquale, il crocifisso risorto, il senso del regno di Dio e il problema della verità di Dio. Infine si procede con una fenomenologia della fede cristiana nel NT. La fede si configura come la forma di una partecipazione -“appropriazione” della verità di Dio rappresentata nella storia di Gesù di Nazaret o anche come un «percorso che dalla personale conversione alla verità di Dio, conduce all’imitazione-sequela, per arrivare finalmente alla fede testimoniale. Cioè a quella forma della fede che assimila l’intenzione del morire e del risorgere del Signore e ne fa memoria nella pratica sacramentale» (p. 187). Quello che emerge da questa fenomenologia è il darsi nella fede di due dimensioni (due “formalità della fede”); anzitutto la “fede che salva”, caratterizzata dalla disponibilità nei confronti della salvezza operata da Dio in Gesù Cristo a cui si dà credito, cioè ci si rende disponibili alla sua manifestazione; in secondo luogo la “fede testimoniale” che ha acquisito un rapporto vitale con il risorto e vive della memoria di Cristo. Sono due aspetti inseparabili della stessa realtà, poiché «la fede che salva trovanella fede testimoniale il proprio compimento e la fede testimoniale hanella fede che salva un elemento costitutivo per la propria verità» (p.195). A questi due nuclei, fede e salvezza – fede e testimonianza (chiesa)è dedicato il cap. III. Infine il cap. IV, dal titolo “La mediazione dellatestimonianza ecclesiastica”, mette a tema il luogo della fede in cui èpossibile partecipare coerentemente alla vita dell’evento fondatore e farsicarico del compito di riprodurre storicamente l’effettualità dell’eventofondatore in forza dell’azione dello Spirito del Risorto e senza sostituirsiad esso (la tradizione).Nel breve spazio di una recensione non è possibile presentare i numerosielementi che fanno di questo volume un saggio interessante, arricchitodalla presentazione di Sequeri. In fondo, e ciò – a seconda deipunti di vista – costituisce il limite o il pregio di questo testo, si puòleggere l’opera di Cappa come una introduzione al modello teologicofondamentaleesemplificato da Sequeri. Non a caso oltre la metà dellecitazioni nelle note e buona parte di citazioni nelle pagine del volumesono tratte da testi del teologo milanese ed anche il linguaggio e lo stilesono quelli tipici della “scuola milanese”. Al di là di tutto forse anche perquesto motivo la lettura del libro di Cappa è raccomandata.
Tratto dalla rivista Lateranum
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