Libera nos Domine
-Sulla globalizzazione dell'indifferenza e sull'ignoranza dell'idiota giulivo
(Problemi & proposte)EAN 9788825052121
GIULIO ALBANESE
LIBERA
NOS DOMINE
Sulla globalizzazione
dell'indifferenza,
e sull'ignoranza dell'idiota giulivo
Prefazione di Giuseppe Crea
A tutti coloro che hanno compreso (o intendono farlo)
che stiamo attraversando un cambiamento d'epoca
rispetto al quale non possiamo restare indifferenti,
come insegna in modo perspicace papa Francesco.
«Il cattolicesimo convenzionale è per definizione
un cattolicesimo svuotato di cristianesimo,
un 'sacramento incompiuto',
una forma religiosa esteriormente cristiana
ma senza passione missionaria'
un bacio senza amore».
(don Tonino Bello)
«La vita non è aspettare che passi la tempesta,
ma imparare a ballare sotto la pioggia».
(Mahatma Gandhi)
ISBN 978-88-250-5212-1
ISBN 978-88-250-5213-8 (PDF)
ISBN 978-88-250-5214-5 (EPUB)
Copyright © 2020 by P.P.F.M.C.
MESSAGGERO DI SANT'ANTONIO ' EDITRICE
Basilica del Santo - Via Orto Botanico, 11 - 35123 Padova
www.edizionimessaggero.it
' ' Prefazione
Il compito di introdurre questo libro dell'amico
e confratello Giulio Albanese mi allieta e mi inquie-
ta allo stesso tempo. Perché è un libro che si legge
tutto d'un fiato, con le sue storie, i suoi dati, le sue
metafore a volte ironiche e a volte introspettive.
Man mano che ci si immerge nella lettura, emerge
però preponderante una domanda di fondo: ma di
chi sta parlando' Chi sono gli interlocutori' Dove
sono questi particolari esseri viventi, che sanno tut-
to e' non sanno niente'
Se inizialmente sembra una vivace descrizione
che riguarda gente di altri tempi, come i romani, i
goti, i filosofi del Medioevo o gli avventurieri della
moderna globalizzazione, alla fine ci si accorge che
il libro non parla di 'loro', ma si riferisce a noi, a
ciascuno di noi!
Un libro quindi che non parla tanto di storie
lontane, ma di una storia vicina, pervasiva e on-
nipresente, radicata e sistemica, che diventa parte
dell'esistenza di ognuno. Un fenomeno molto più
prossimo ai comuni mortali che alle cattedre dei fa-
mosi luminari. Una realtà che si espande nel modo
di essere di ognuno, al punto da non permettere più
di distinguere ciò che è normale da ciò che non lo è.
7
Sembra quasi un 'virus' dormiente che pervade il
modus vivendi di una umanità spettatrice, passiva e
indifferente dinanzi alle sorti della tempesta cultu-
rale che avvolge le sorti del mondo di oggi.
È in questa condizione di apparente normalità
che ' parafrasando la famosa espressione di Martin
Luther King ' il silenzio dei sedicenti onesti diventa
una subdola cattiveria che, nell'uomo comune co-
me nelle istituzioni più sacre, si radicalizza fino a
rendere comicamente normale ciò che non lo è. Al
punto da trasformare la devianza in un nuovo stile
di vita che, alla fine, va bene un po' a tutti.
In questo modo sembra delinearsi una sorta
di risoluzione indolore, un male minore che ' al-
meno apparentemente ' non infastidisce nessuno.
Un metodo di vita dove ciò che è tragico diventa
comico, ciò che è patologico diventa norma comu-
ne o regola-di-vita che dir si voglia, dove ognuno
può sguazzare a proprio piacimento. Sono quei
fenomeni della storia che si ripetono, e rischiano di
riportarci al livellamento motivazionale, al trionfo
del pensiero debole, alla prolificazione delle tante
omologazioni, alla passività del déjà vu.
Il libro di Giulio Albanese, però, va oltre l'ana-
lisi di questi fenomeni nei loro risvolti storici, eco-
nomici, politici, sociali, religiosi. Sono pagine che
accompagnano il lettore a riconoscere il pericolo
occulto di una ordinaria crisi di civiltà, diventata
oramai un fatto comune, pervasivo, onnipresente.
Torna purtroppo alla memoria la famosa espressio-
ne della Arendt nel suo libro La banalità del male.
8
Eichmann a Gerusalemme, dove il male dei tortu-
ratori sembrava non solo confondersi con il bene,
ma diventare terribilmente normale.
Nel mondo attuale sono molti gli areopaghi do-
ve possiamo trovare uomini e donne che continua-
no a disseminare questo stesso pericolo occulto.
Sono i tanti contesti che si nutrono di una santa
ignoranza per popolare strutture e istituzioni. Al
punto che ci si abitua a una condizione di indivi-
dualità frammentata dove la legge della competizio-
ne ha soppiantato la legge dell'essere parte di una
comune umanità; la sopraffazione è diventata la
regola, e le tante incompetenze dilaganti, rafforzate
dalle incongruenze tra ideali proclamati e realtà
dissonanti, diventano ragion d'essere per ogni buon
idiota giulivo che si rispetti.
La pericolosità di tale fenomeno non riguarda
più questo o quell'individuo, né questo o quell'im-
pero, né tantomeno questa o quella istituzione, ri-
siede nella sua pervasiva normalità. È un po' come
l'aria che respiriamo, soprattutto quando è densa di
gas tossici: riguarda l'habitat stesso che accomuna i
pensanti e li rende anestetizzati dal rischio di rico-
noscere il valore della 'diversità'.
Ed è qui che comincia il senso di inquietudi-
ne di cui parlavo all'inizio, quel fastidioso disagio
che sembra attraversare il cuore e la mente di chi
ritrova, nel linguaggio scorrevole e piacevole delle
pagine di questo libro, un messaggio quanto mai
attuale che porta a fare i conti con se stessi e con le
proprie responsabilità.
9
' ' Premessa
«A peste, fame et bello libera nos, Domine»,
ovvero «liberaci, Signore, dalla pestilenza, dalla
guerra e dalla fame». Così pregavano i fedeli nel
Medioevo e a dire il vero, in alcune località, fino ai
giorni nostri. Sono le cosiddette 'rogazioni', pre-
ghiere, atti di penitenza e processioni propiziatorie
per la buona riuscita delle seminagioni e contro le
avversità di madre natura. La finalità era ed è quel-
la di invocare la benedizione divina, implorando
la Provvidenza e l'intercessione dei santi. Queste
pratiche risalgono al V secolo, quando nella Gallia
Lugdunense si abbatterono varie calamità naturali
tra cui un terremoto. Il vescovo della città di Vien-
ne, san Mamerto, decise allora di introdurre un
triduo di preghiera e di digiuno subito a ridosso
della festa dell'Ascensione. Ma, oggi, alla luce an-
che della pandemia di Coronavirus che ha portato
lutti a non finire, occorre operare un sano discer-
nimento. In effetti, certi atteggiamenti all'insegna
della maleducazione che hanno contrassegnato la
tragica stagione della clausura, giustamente imposta
dalle autorità sanitarie, la dicono lunga. Quante
volte abbiamo sentito parlare, attraverso i media
nazionali, di personaggi imbarazzanti che violavano
13
sistematicamente l'obbligo di stare in casa, peral-
tro mettendo a repentaglio l'incolumità altrui' E
allora forse, prim'ancora che invocare la liberazio-
ne dal Covid-19, dovremmo davvero tutti quanti
domandarci: chi ci libererà oggi dalla stupidità e
dall'ignoranza'
Ciò che sta avvenendo nel mondo globalizza-
to ci interpella perché sembra quasi che, un po'
ovunque, si affermi il pensiero debole caratterizzato
dall'implosione di numerosi presupposti fondanti
della filosofia classica (ad esempio in campo etico),
e dall'indebolimento della persona come soggetto.
Occorre allora interrogarsi seriamente sulle ragio-
ni che hanno determinato questo svuotamento del
pensiero con la conseguente depressione dell'a-
nima, ingenerando la cosiddetta «globalizzazione
dell'indifferenza» stigmatizzata in più circostanze
da papa Francesco. Quanto detto è una realtà che
ha accompagnato l'intera vicenda umana, ma nel
nostro secolo si è accentuata in modo ormai pre-
ponderante sulla spinta, soprattutto, di un bombar-
damento mediatico e culturale che ha come metro
di valutazione l'individuo, inteso esclusivamente
nella sua autoreferenzialità, senza quel complesso
di pensiero e di ethos che lo rende persona, un
complesso nel quale ha gran parte valoriale il bene
comune.
E nel tempo del Covid-19, un'epidemia più dif-
fusa anche se meno mortale di altre del passato,
quel pensiero debole si è paralizzato, incapace di
14
indagare il futuro, dai contorni ancora sfuggenti ma
che tutti intuiscono dovrà essere diverso.
Eppure pensare bisogna, individualmente e nel
confronto collettivo. Un confronto che riguarda gli
schemi sociali, le scelte politiche, i modelli econo-
mici sostenibili con la cura della terra, casa comu-
ne dell'umanità, lo sviluppo che non può essere
indiscriminato, i rapporti internazionali in questa
globalizzazione che ha prodotto disuguaglianze im-
mense, ha mondializzato lo strapotere di una finanza
incontrollata, ha aumentato l'attacco ai diritti umani
fondamentali1.
Preciso che queste pagine hanno trovato il loro
incipit in un brano di Luciano di Samosata, propo-
sto come prova scritta di greco agli studenti italiani
del liceo classico durante gli esami di maturità del
2014. Trattandosi di un testo, per chi scrive, già
studiato in gioventù, il fatto di poterlo rileggere
oggi, alla luce dei fatti e degli accadimenti del no-
stro tempo, è stato estremamente illuminante. Il
brano si intitola L'ignoranza acceca gli uomini ed è
tratto dall'opera Non si deve credere facilmente alla
calunnia2. Sentite che cosa dice questo retore greco,
di origine siriana, celebre per la natura arguta e
irriverente dei suoi scritti satirici:
L'ignoranza è un male veramente terribile e fonte
di molte disgrazie, perché versa una sorta di nebbia
1
' P. Natalia, Pasqua 2020, in «Sosta e Ripresa», Rivista
telematica, 12 aprile 2020.
2
' L. di Samosata, Dialoghi, a cura di Vincenzo Longo, vol.
III (testo greco a fronte), UTET, Torino 1993.
15
sulle nostre azioni, oscura la verità, getta un'ombra
sulla vita di ciascuno. E davvero assomigliamo a chi
brancola nel buio, anzi, siamo nella condizione dei
ciechi: sbattiamo senza riflettere contro un ostacolo,
un altro lo scavalchiamo senza che ce ne sia bisogno,
e non vediamo quello vicino, proprio ai nostri piedi,
mentre temiamo come se ci minacciasse quello lon-
tanissimo; insomma, non smettiamo di inciampare
nella maggior parte delle nostre azioni.
L'ignoranza di cui parla Luciano di Samosata è
quella di ieri, di oggi e di sempre. In effetti, sono
trascorsi quasi due millenni da quando egli scrisse
queste sue considerazioni che trovano oggi un in-
felice riscontro un po' dappertutto. Basterebbe ri-
flettere, ad esempio, sulle aberrazioni che talvolta si
leggono sui social network, dalle quali si evince che
non solo sono saltati i freni inibitori di molti utenti,
ma che la violenza e lo squallore delle parole hanno
raggiunto livelli indicibili. Senza voler fare di tutte
le erbe un fascio, nella rete digitale si sta sempre più
affermando l'esatto contrario della ragionevolezza
e soprattutto del rispetto. E cosa dire dei pronun-
ciamenti di esponenti altolocati della politica che in
materia di diritti umani (accoglienza, integrazione,
solidarietà') si esprimono ostentando riottosità
verbale, senza cognizione di causa' Non parliamo
poi della gente comune, la cui ignoranza si evince
non solo dalla scarsità di conoscenze sull'attualità
o la cultura generale, ma anche da comportamenti
sguaiati e intolleranti. In particolare, è stato scon-
volgente assistere al delirio di onnipotenza di certi
16
' ' A proposito della diversità
Ci sono delle parole che in tempi di crisi costitui
scono un vero e proprio tabù. Tra queste: diversità.
La diversità è un fenomeno variegato che riguarda
la razza, la religione, le convinzioni, le esperienze
di vita, la lingua, l'età anagrafica, semplicemente il
fatto di essere uomini o donne, il lavoro che svol-
giamo e che non abbiamo potuto scegliere, i gusti e
tanto altro. È assolutamente impossibile anche solo
cercare di contarle, le diversità. Tutta l'esperienza di
ciascun essere umano è costantemente attraversata
da continue presenze dell'altro. Entrare in relazio-
ne con il diverso vuol dire entrare in contatto con
un'altra identità, cioè con qualcuno che non corri-
sponde ai nostri parametri. La nostra specie, homo
sapiens, è una delle poche che partendo dal luogo
in cui è nata (probabilmente nella valle africana
dell'Omo in Etiopia, circa duecentomila anni fa) si
è poi diffusa in tutte le terre emerse e quindi anche
in Europa. Si tratta di un'ipotesi ' definita, in gergo
tecnico, Rsoh, dall'inglese Recent single-origin hypo-
thesis ' suffragata peraltro da prove inoppugnabili
e convergenti di natura archeologica, linguistica e
genetica.
Non pochi studiosi si sono interessati ai modi
67
e ai tempi con cui la nostra specie dall'Etiopia si
è dilatata non solo in tutta l'Africa, ma anche in
Asia, poi in Australia e in Europa e, infine, nelle
Americhe. Una migrazione graduale che si è conclu-
sa, tre-quattromila anni fa, con l'arrivo dei sapiens
nelle isole polinesiane. Guardando alla nostra real-
tà europea, come è avvenuta questa penetrazione
dall'Africa'
Prima dell'arrivo dell'homo sapiens il nostro
continente era popolato da un ominide a lui molto
affine, il cosiddetto homo neanderthalensis. Molto
evoluto, in possesso di spiccate tecnologie paleoli-
tiche e dal comportamento sociale piuttosto avan-
zato, questo homo ha preso il nome dalla valle di
Neander, in Germania, dove furono rinvenuti i suoi
primi resti fossili. Egli visse nel periodo paleolitico
medio, compreso tra i duecentomila e i quarantami-
la anni fa. Le ragioni che ne causarono l'estinzione
non erano state indagate più di tanto fino a qualche
anno fa. Come mai, dopo millenni e millenni di vita,
dopo essere riuscito a superare indenne varie ere
glaciali nell'Europa centrale e occidentale, il suo
posto venne preso dall'homo sapiens sapiens' Le
ipotesi formulate dagli studiosi sono davvero tante,
ma quella più convincente e peraltro suffragata da
ritrovamenti archeologici è stata pubblicata sulla
rivista «Science» del 29 luglio 2011 da due ricerca-
tori del dipartimento di archeologia di Cambridge.
Realizzando scrupolosamente un'analisi statistica
dei reperti archeologici ritrovati nella regione del
Perigord, nel sud ovest della Francia, hanno riscon-
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trato che le prime popolazioni umane moderne,
provenienti dall'Africa, penetrarono nel sito in que-
stione in un numero almeno dieci volte superiore
rispetto alle popolazioni autoctone dei neandertha-
liani. Essi possedevano tecnologie di caccia e attrez-
zature superiori ai loro 'cugini', e probabilmente
procedure più efficienti per la trasformazione e la
conservazione delle scorte di cibo nel corso degli
inverni eccezionalmente prolungati e algidi dell'era
glaciale. Inoltre, l'evidenza archeologica dimostra
che i nuovi arrivati, provenienti dalle savane afri-
cane, furono anche in grado di elaborare sistemi
di comunicazione sociale nettamente superiori ai
neanderthaliani. Grazie a migliori tecniche e alla
capacità di realizzare coltivazioni e allevamenti, i
nuovi arrivati diedero vita a interazioni economiche
e scambi di prodotti in eccedenza; tutto questo con-
tribuì fortemente alla creazione di un tessuto sociale
tra le loro comunità primordiali che le rafforzò,
rendendole più solide. In questo modo si posero
le condizioni per garantire cibo e sostegno anche a
coloro che non potevano necessariamente cacciare.
Non solo: si crearono le condizioni per vivere anche
laddove le prede erano scarse e dunque passare da
cacciatori nomadi a gruppi stanziali. A questo pro-
posito, il professor Mellars, ha dichiarato:
In ogni caso, è stata chiaramente questa gamma
di innovazioni tecnologiche e comportamentali che
hanno consentito alle popolazioni umane moderne
di invadere il mondo e di sopravvivere in un nu-
mero molto superiore di individui durante le crisi
69
alimentari. Dai resti degli uomini di Neanderthal si
può desumere che in tutto il continente europeo di
fronte a questo tipo di competizione l'uomo di Ne-
anderthal sembra essersi ritirato inizialmente nelle
regioni più marginali e meno attraenti del continente
e alla fine ' al massimo in un paio di migliaia di anni,
forse anche a causa di un improvviso deterioramento
climatico in tutto il continente circa 40.000 anni fa,
si è estinto45.
Dunque, capacità sociali spiccate e una migliore
gestione delle risorse disponibili sono state le chiavi
del successo dei nostri antenati.
Sta di fatto che per quanto i sapiens di cui sopra
abbiano tentato di fare cartello, è evidente che fa
parte della natura di ogni gruppo sociale ' grande
o ristretto che sia ' la tendenza a scegliere al pro-
prio interno qualcuno a cui possa essere attribuita
la qualifica di 'diverso', enfatizzando certi tratti
fisiognomici o comportamentali legati alla religione,
alla condizione sociale, al colore della pelle, allo
stato di salute o a costumi di vario genere. Questo
termine, diverso, sia aggettivo sia sostantivo, ha nel
proprio dna etimologico due verbi latini: divertere
(deviare) e vertere (volgere). Potremmo pertanto
dire che il diverso è colui che è volto in altra dire-
zione, quindi alieno, lontano. È dunque evidente
che non si tratta di un termine neutro, ma è anzi
dichiaratamente esclusivo. Esso, infatti, si riferisce
45
' Dichiarazione riportata dall'articolo Uomo moderno con-
tro Neanderthal: la forza dei numeri', in «Gaianews.it» del 29
luglio 2011.
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a qualsivoglia persona o gruppo da cui guardarsi o
su cui infierire. Non esiste un diverso predefinito,
codificato una volta per tutte: ogni uomo ' tutti co-
loro che si definiscono «prossimo» ' può all'occor-
renza configurarsi come totalmente altro rispetto al
sentire della comunità. Nella letteratura dantesca
il diverso non è soltanto dissimile, distinto, ma è
soprattutto strano, insolito: «lamenti saettaron me
diversi»46; e perfino orribile, mostruoso: «Cerbero,
fiera crudele e diversa»47. La diversità, dunque, ha
da sempre rappresentato una costante per l'umani-
tà, quasi intimorita da tutto ciò che esula dalle pro-
prie conoscenze, dalle proprie certezze e abitudini.
Gli scenari sono sempre stati molteplici e variegati:
dalle persecuzioni contro i cristiani nei primi secoli,
alle vittime dell'Inquisizione, per non parlare, oggi,
della mobilità umana, cioè di quella consistente
porzione di umanità dolente generata dalla globaliz-
zazione dell'indifferenza. Poco importa che si tratti
di migranti economici o di richiedenti asilo, la loro
diversità è percepita sempre e comunque come una
minaccia, catalizzatrice di qualsiasi disgrazia.
Nella Storia notturna di Carlo Ginzburg, gli
ebrei e i lebbrosi vengono accumunati da una me-
desima sorte: essere perseguitati perché ritenuti
artefici di complotti e di turpi macchinazioni ai
danni del popolo cristiano. In epoca medievale ai
'diversi' venne imposto di portare un segno di rico-
' Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno XXIX, 43.
46
' Id., Inferno VI, 13.
47
71
noscimento, attraverso il quale individuarli e tenerli
lontani. Dice Ginzburg a questo proposito: «Lo
stigma cucito sulle vesti esprimeva un'estraneità
profonda, anzitutto fisica. I lebbrosi sono 'fetidi';
gli ebrei puzzano. I lebbrosi diffondono contagio,
gli ebrei contaminano i cibi». Torturare, perseguita-
re, emarginare' tutto ciò alligna nell'animo umano
e costituisce l'altra faccia del nostro io.
Molti filosofi ritengono che l'attuale ontologia si
risolva nella riduzione dell'altro al medesimo. Già
Hegel, in maniera esemplare, aveva mostrato, nella
descrizione dell'autocoscienza, come l'io si affermi
mediante un'attività incessante di annientamento e
di riduzione di ogni alterità. L'ontologia si presen-
ta come «egologia», quindi come prevaricazione
dell'altro, del prossimo, come libertà di potenza
fondata sulla negazione dell'altro. Occorre comun-
que ricordare che in tempi di aperta persecuzione,
dove la mentalità becera e ottusa del «respingimen-
to» e dell'«annientamento» imperava, la nostra fede
ha rappresentato uno straordinario antidoto per
affermare la dignità della persona umana e l'unità
del genere umano. Ad esempio, proprio durante
la persecuzione nazista vi sono state straordinarie
testimonianze di solidarietà tra cattolici, protestanti
ed ebrei. Emblematica è stata la figura di Dietrich
Bonhoeffer, pastore luterano, arrestato e imprigio-
nato il 5 aprile 1943 nel pieno della sua intensa
attività per coltivare e ampliare una fitta rete di rela-
zioni nelle quali si intrecciavano progetti ecumenici
e iniziative politiche di resistenza a Hitler. Bonhoef-
72
fer trascorse in carcere gli ultimi due anni della sua
vita, vivendo uno spirito ecumenico intriso di fede
profonda e serena, priva di bardature confessionali,
riconoscendo la grandezza di un Dio che regge il
mondo non da un trono ma da una croce, ed entra
in Cristo nella sconfitta e nella morte dell'uomo.
«Soltanto nel pieno 'essere-in-questo-mondo' del-
la vita s'impara a credere», scrisse in una toccante
missiva del 21 luglio 1944.
Va rilevato che lo spirito ecumenico, nel marti-
rio, può trovare il proprio radicamento e i propri
interpreti anche in anime dichiaratamente laiche
del calibro di Armin Theophil Wegner. Attivista
e scrittore tedesco, nel tentativo di tenere desta
l'attenzione sulla strage degli armeni affermò te-
merariamente: «Oso rivendicare il diritto di farvi il
quadro delle scene di sofferenza e di terrore che si
sono snodate davanti ai miei occhi per circa due an-
ni, che non si potranno mai cancellare dalla mia me-
moria». Testimone oculare di quel genocidio lottò
per anni, nel tentativo di far riconoscere al governo
turco la strage. E cosa dire del suo tentativo dispe-
rato di salvare l'anima alla Germania, scrivendo una
missiva a Hitler in difesa degli ebrei' Wegner, per
il suo coraggio, venne riconosciuto nel memoriale
Yad Vashem quale uno dei Giusti tra le nazioni.
È pertanto evidente come la prima forma di
libertà degli oppressi consista proprio nel garantire
a ognuno la sicurezza della propria esistenza. Vi
sono state, comunque, nella storia della Chiesa,
situazioni nelle quali il martirio, dal punto di vista
73
strettamente spirituale e testimoniale, ha assunto
una valenza dialogica e dunque comunionale. Em-
blematico è stato il sacrificio della beata suor Leo-
nella Sgorbati, missionaria della Consolata, uccisa
il 17 settembre del 2006 a Mogadiscio, in Somalia,
da una pallottola sparata a distanza ravvicinata da
due jihadisti che l'attendevano mentre rientrava
a casa dall'ospedale. Tra lei e gli aggressori cercò
di frapporsi Mohamed Mahamud, un musulmano,
padre di quattro figli, che la stava scortando in quel
brevissimo tragitto. Anch'egli venne ucciso. Non si
trattò di una semplice coincidenza: «Per me ' disse
il suo vescovo monsignor Giorgio Bertin durante i
funerali ' la morte di un'italiana e di un somalo, di
una cristiana e di un musulmano, di una donna e
di un uomo, ci dice che è possibile vivere insieme,
visto che è possibile morire insieme! Per questo il
martirio di suor Leonella è un segno di speranza»48.
In un contesto esistenziale come quello che ci
appartiene, segnato dalla logica dello scontro tra
le civiltà, occorre davvero contrastare il pensiero
debole, volando alto, come nel caso di Al Zubaidi,
tutore di al Hakam II, secondo califfo omayyade di
Cordoba, monarca amante della cultura e dei libri,
che diede vita a una biblioteca di quattrocentomila
volumi. Ebbene Al Zubaidi affermò senza esita-
zione che «Tutte le terre, nella loro diversità, sono
una sola terra, e tutti gli uomini sono dei vicini e
48
' Cf. Suor Lonella Sgorbati, martire in Somalia, presto bea-
tificata, in «Aleteia», 13 novembre 2017.
74
' Indice
Prefazione (Giuseppe Crea) . . . . . . . . . . pag. 7
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »'''13
Corsi e ricorsi della storia . . . . . . . . . . . . »'''25
Pensanti e non pensanti . . . . . . . . . . . . . »'''33
La prevalenza della stupidità . . . . . . . . . »'''45
Questione di giustizia . . . . . . . . . . . . . . . »'''55
A proposito della diversità . . . . . . . . . . . »'''67
Migrazioni e luoghi comuni . . . . . . . . . . »'''79
Le responsabilità della disinformazione »'''93
Keynes e la noce moscata . . . . . . . . . . . . »''101
Per finire... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »''109
Postfazione dell'autore . . . . . . . . . . . . . . »''119
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