La "scuola francescana" come guida al pensiero filosofico occidentale. La sollecitazione a un nuovo stile di pensiero, secondo il quale la verità è la forma che la libertà in esercizio assume nel tempo.
INTRODUZIONE
«La concezione più profonda – scrive G. Simmel – è quella per cui esistono a priori soltanto diritti, per cui ogni individuo ha pretese – sia generalmente umane sia derivanti dalla sua situazione particolare – che soltanto come tali diventano doveri di altri soggetti». È il primato del diritto-a-essere, motivo sotterraneo della filosofia occidentale, diventato, con la filosofia moderna, programmatico e, con le filosofie del Novecento, l’orizzonte entro cui hanno preso volto proposte e movimenti di varia natura. Il dovere non è al primo posto, essendo piuttosto correlato del diritto. Detto in altro modo. Nel solco della razionalità greco-medievale, la modernità ha messo in luce l’anima giuridica di tale razionalità: l’essere è diritto-a-essere. L’età contemporanea da parte sua ha tradotto tale anima giuridica in diritti soggettivi, sociali, civili, individuali, in una sorta di sostanziale autoreferenzialità dell’io.
Alla luce di tale piega esistenziale, si tenta qui una rilettura della filosofia dell’Occidente, ispirata a siffatta razionalità, la cui stretta finale ha luogo con la filosofia moderna, quando l’esistere viene esplicitamente inteso come realizzazione di un diritto – conatus essendi di Spinoza o exigentia existendi di Leibniz o struggle-for-life di Darwin. L’età contemporanea ne ha tratto le conseguenze, dando vita a una stagione rivendicativa sia a livello sociale che propriamente politico. Per contrasto, si impone l’originalità della Scuola francescana, per la quale il punto di partenza non è il diritto-a-essere, ma il dono-di-essere, non l’altro in quanto contende o impone qualcosa, ma l’altro in quanto dà ciò che potrebbe non dare, sicché l’io è consapevole di essere perché colui che avrebbe potuto non volerlo lo ha voluto. Si è in un altro territorio, qualificato da un’ontologia che non si richiama all’essere in quanto essere, ma all’essere in quanto liberamente donato, dunque oltre l’alternativa diritto-dovere, entro la logica della libertà creativa nella gratuità.
A questo duplice registro di lettura delle tappe più significative della filosofia occidentale vorrei qui richiamarmi: uno descrittivo, nel senso che cerca di ricostruire la logica sostanzialmente rivendicativa dell’essere come diritto-a-essere, alla cui luce la filosofia occidentale si è sviluppata; l’altro prescrittivo, nel senso che allude alla logica sostanzialmente oblativa dell’essere, propria della filosofia francescana, per un auspicato nuovo modo di far filosofia. Da una parte la filosofia dell’essere come ciò che è in-sé ed è per sé, anche se non da sé, dall’altra la filosofia dell’essere come ciò che è in relazione o essere-per-l’altro; l’una è l’ontologia dell’autoaffermazione, l’altra l’ontologia della dedizione. A sostegno di questa sponda di confronto, paiono illuminanti non poche suggestioni teoretiche dei maestri francescani, da Alessandro d’Hales a Bonaventura, da Pietro di Giovanni Olivi a G. Duns Scoto, da Guglielmo d’Occam a Raimondo Lullo, la cui lezione concorde è costituita dal primato della libertà, del bene, dell’imprevedibile. Lezione da prendere sul serio se è vero che siamo al bivio del processo di razionalizzazione di tutti gli ambiti dell’essere, del sapere e dell’operare. Infatti, questo obiettivo primario della filosofia occidentale – procedere alla trasfigurazione razionale di tutto ciò che è, comprese le religioni – è contraddetto, nell’epoca contemporanea, dall’esplosione dell’irrazionalità, di cui sono prove irrefutabili le due guerre mondiali, i due regimi totalitari, il corteo di guerre di fine Novecento e del primo decennio del nuovo millennio.
Con la crisi di tale processo di universale razionalizzazione il territorio, nel quale ci si trova a vivere e a pensare, appare attraversato da correnti contrapposte, che non pare ragionevole ridimensionare o misconoscere. Le molte espressioni teoretiche e socio-politiche di segno relativistico, agnostico, consumistico, sono spie preziose del carattere conflittuale delle forze in campo e confermano la necessità del loro trascendimento. Il diritto-a-essere è solo la voce gridata in un tempo di deriva, da accogliere, senza però lasciare in ombra la voce dei tanti che sono senza voce, facendo leva sulla forza della civitas Dei, vestita della veste luminosa di madonna povertà, per un dialogo a tutto campo, in libertà. In quanto abitante della civitas hominis e insieme custode della civitas Dei, il magistero della Chiesa cattolica non può non dare il suo contributo all’affermazione di tale libertà, non senza però mettere in chiaro la genesi di quei contrasti, che ne hanno segnato il cammino, problematizzando il volto, censorio e reattivo, assunto nella storia, soprattutto nei passaggi epocali.
La fecondità – e l’urgenza – di questa nuova prospettiva sta nella necessità di superare la discrepanza, variamente alimentata, tra il sapere, il produrre, il sentire, l’immaginare, l’amare, che è, forse, la radice ultima delle pagine buie della storia contemporanea. Infatti, circa i genocidi di ieri – nazismo-stalinismo – e di oggi – non solo in Rwanda ma anche nella vicina ex Jugoslavia – come dei conflitti sparsi in tante parti del globo, quale la riflessione più pertinente? Pare che queste pagine siano il frutto avvelenato della disarmonia tra quanto sappiamo e possiamo produrre, e quanto effettivamente sentiamo, immaginiamo e amiamo. Noi possiamo immensamente più di quanto siamo in grado di immaginare, sentire o amare, al punto da ritrovarci sognatori capovolti: il sognatore un tempo immaginava più di quanto poteva; noi oggi possiamo più di quanto immaginiamo.
Il passo storico del sapere e della tecnica è molto più lungo e rapido del passo soggettivo dell’immaginare, del sentire e dell’amare di ognuno di noi. Chi sgancia la bomba su Hiroshima conosce gli effetti, non immagina il disastro, né sente quel dolore. È la tesi de La banalità del male di Hannah Arendt. Il sapere e il potere non procedono assieme all’immaginare e all’amare. Il potere e il sapere si sono dissociati dal sentire e dall’amare. Il sentire è inferiore al sapere; il produrre è superiore all’amare. Quale la grave conseguenza? L’irrilevanza del sapere stesso, nel senso che non sta in esso la chiave risolutoria dei problemi, dal momento che ogni sapere, animato dal dirittto-a-essere, procede per suo conto. Puoi sapere tutto di un eccidio in atto e sorbire un buon tè, in tranquillità. Siamo alla consumazione della divaricazione tra cultura scientifico-tecnica e cultura umanistica e dunque all’assenza di una forza che tenga insieme i molti versanti del vivere e del pensare.
Che cosa allora è davvero necessario per una pacifica forma di cittadinanza cosmopolitica? La riarmonizzazione delle facoltà, mutando registro interpretativo del reale e dunque del pensare e del vivere. Certo, si vive, si pensa, si opera all’interno del sistema, e il sistema è più della somma delle parti, con una dura resistenza alle perturbazioni e una forte tendenza al ristabilimento dell’equilibrio. Non è sufficiente un ritocco. È necessario agire sulla forza coesiva, sul motivo ispiratore dell’insieme, perché poi il cambiamento abbia a ripercuotersi sui singoli componenti. Ebbene, il motivo ispiratore della filosofia occidentale è il diritto-a-essere o l’autoaffermazione – ognuno per suo conto – il cui impulso è stato variamente tradotto nell’ambito scientifico-tecnico, come in quello umanistico, con l’evidente dissociazione dell’uno dall’altro e l’innegabile trionfo del primo sul secondo. Da qui la disarmonizzazione del nostro essere. Noi sappiamo e produciamo, ma non immaginiamo, sentiamo e amiamo con la stessa ampiezza e rapidità. Come far fronte a tale schizofrenia o a tale discrepanza, se non procedendo al cambio della forza propulsiva del sistema – l’essere come diritto-a-essere – e dunque al cambio del registro interpretativo del reale?