Pater pauperum
-Francesco, Assisi e l'elemosina
(Studi francescani)EAN 9788825022933
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Il testo di Marco Bartoli ha, tra gli altri, il merito di indagare un tema spesso lasciato in ombra: il rapporto tra la povertà volontaria di Francesco e dei suoi frati e quella non certo volontaria di quanti egli incontrava lungo le strade, condizione che l'Assisiate voleva condividere in toto perché così – povero – si fece il Signore per noi. Il titolo, Pater pauperum, muove dalla Vita beati Francisci, la prima biografia ufficiale su committenza pontificia, di fra Tommaso da Celano: Pater pauperum, pauper Franciscus (Vita beati Francisci, XXVIII, 76: FF 453), bella espressione e insieme felice sintesi del Celanese sul rapporto Francesco-poveri. Da un lato c'è «il povero Francesco» con la sua scelta di povertà che diverrà l'emblema dei frati che da lui prenderanno il nome, dall'altro ci sono i poveri, quelli che erano tali non per scelta ma per condizione. Nota l'autore che sul primo aspetto gli studi scorrono a migliaia, mentre dei secondi è stato scritto assai poco. Eppure per Francesco erano proprio questi poveri per necessità e contingenze varie della vita, la misura concreta della propria scelta, né si comprende mai appieno la povertà francescana se non ci si interroga sul concreto atteggiamento di Francesco verso di essi. C'è anche un secondo motivo che ha spinto l'autore a focalizzare il rapporto Francesco-poveri e costituisce, potremmo dire, il fatto “scatenante” il suo approfondimento. Si tratta dell'ordinanza emanata dal sindaco di Assisi in data 24 aprile 2008 atta a impedire la mendicità nella cittadina umbra. Niente di nuovo, commenta Bartoli, alla luce del clima che si respira ai nostri giorni e osservando simili ordinanze in molte altre città italiane. Però con un distinguo che non può essere taciuto: Assisi è la città di Francesco, la sua identità è strettamente legata alla memoria di questo suo figlio più illustre – cui peraltro deve a tutt'oggi la sua fama e prosperità – e dei suoi frati: ogni anno milioni di turisti e pellegrini salgono il colle del Paradiso per incontrare colui che è universalmente riconosciuto e amato in tutte le latitudini anche oltre quelle della chiesa cattolica. Con quei mendicanti che l'ordinanza vuole bandire, lui e i suoi frati ebbero molto a che fare fino al punto da essere chiamati fratres minores, così minores da voler condividere la medesima situazione: frati mendicanti appunto. L'autore riporta la reazione espressa al sindaco da alcuni esponenti del mondo ecclesiale, a iniziare dal vescovo, dalle sorelle clarisse e dai frati di Assisi (Minori, Conventuali, Cappuccini), dai migliori specialisti di storia francescana tra frati e laici (tra i quali l'autore che fa parte del Consiglio direttivo della Società Internazionale di studi francescani con sede in Assisi), e last but not least, da tante anonime persone e pellegrini innamorati di Francesco che hanno sostenuto e firmato un appello che dall'ordinanza prendeva le distanze. In nome di Francesco d'Assisi che «ci ha insegnato a essere fratelli e sorelle di tutti e specialmente dei più poveri e deboli». Da tale bruciante attualità di cultura – o, per meglio dire, sottocultura – della xenofobia e del disprezzo verso il diverso, lo straniero, il mendicante, l'immigrato che giunge al nostro paese sognando una vita migliore e dei suoi “prodotti” (vedi ordinanza di Assisi e altre simili), muove lo studioso che si chiede, provando a interrogare le fonti disponibili, quale fosse la situazione al tempo di Francesco e quale l'atteggiamento da lui elaborato nei confronti dei poveri e dei mendicanti nel suo tempo. Non per trasferire l'acceso dibattito dei nostri giorni nel passato, ma per cercare di cogliere l'atteggiamento di Francesco e dei suoi fratres, come già richiamato poveri e mendicanti volontari, nei confronti di quanti tali erano non per scelta propria ma per necessità. Chiariti il campo dell'indagine e il contesto che l'ha suscitata, l'autore passa a esaminare chi erano in concreto i poveri, i mendicanti con i quali si è imbattuto il figlio di Bernardone. La partenza del percorso è costituita da quella fonte eccezionale che è il Testamento stesso di Francesco ove la sua prima, mirata e meditata memoria da lasciare ai frati, si posa sui lebbrosi. Sì, perché tutto iniziò con un incontro con loro, sotto la regia dell'Altissimo. Nella rilettura teologica degli avvenimenti che hanno caratterizzato la nascita della fraternitas i lebbrosi sono come i maestri del giovane Assisiate, coloro che gli hanno comunicato un gusto nuovo, la «dolcezza» della vita stessa. Essi perciò costituiscono, a buon diritto, il primum della sua conversione. Ha un'importanza capitale quest'inizio che non poteva non essere ripreso dalla folta schiera degli agiografi di Francesco, primo di tutti fra Tommaso da Celano che de facto nella Vita beati Francisci cita esplicitamente il Testamento immettendolo però entro una trama particolare ove avviene uno slittamento di significato. Questo: il facere misercordiam per i lebbrosi narrato da Francesco nel Testamento diventa aspetto penitenziale fatto di disprezzo di sé e di mortificazione. Ovvero la vittoria di Francesco su di sé. Tutti gli altri agiografi s'adegueranno a questa linea interpretativa – non poco fuorviante rispetto alla memoria che Francesco consegna ai frati –, attestata al momento eroico del bacio dato al lebbroso. Accanto ai lebbrosi, chi erano gli altri poveri incontrati da frate Francesco e dai fratres? E prima ancora, si chiede l'autore, chi era “povero” nel medioevo? Difficile rispondere all'identikit dei poveri e mendicanti di quei tempi, non ultimo per la scarsità di documentazione: essi sono coloro che non hanno un volto, non hanno voce e per questo motivo non entrano nelle poco abbondanti fonti medievali. Da qualcuna di quest'ultime – come fonti giuridiche, testamenti, cronache cittadine, sermoni su elemosina e carità –, qualche dato però emerge e delinea i mendicanti come la punta estrema di una povertà che è molto più diffusa. A quei tempi si diventava mendicanti spesso a causa dell'insicurezza alimentare vissuta nelle campagne a causa di carestie particolarmente frequenti in tempi di guerra; insicurezza che innescava la mobilità verso i borghi ove c'era maggiore possibilità di lavoro. Ma una definizione completa sul povero e mendicante del medioevo – e, verrebbe da dire, anche di oggi – resta sempre difficile: il vocabolario deve necessariamente correre dalla miseria materiale a quella culturale e giuridica segnata dalla mancanza di uno status sociale e di potere. Povero è pertanto il debole, colui che non ha potere, che non ha voce in capitolo (e qui entrano in molti: peregrinus, debilis, humilis, orphanus, vidua, exiliatus, captivus, senex, aegrotus, leprosus, infirmus, idiota, simplex, ecc.). Senza dimenticare che nel medioevo il concetto di povertà ha una forte coloritura religiosa che pur attingendo ai testi evangelici dà vita a riflessioni e comportamenti non sempre univoci, oscillanti dal sentimento di benevolenza istillato dalla predicazione cristiana sino a quello del timore perché il mendicante è percepito come il diverso, potenzialmente pericoloso in quanto uomo che ha fame ed è forestiero. Da qui sino alla colpevolizzazione: la povertà è colta come il risultato delle scelte sbagliate da parte del mendicante stesso, giudizio avallato da passi veterotestamentari più che evangelici che sono invece incentrati su sguardi di misericordia. Più il mendicante incute paura, più è giudicato colpevole della sua stessa condizione. Si pensi, per esempio, al macigno morale che incombeva sui lebbrosi divenuti tali, secondo la credenza medievale, a motivo della promiscuità sessuale: poveri e malati in quanto peccatori. Di fronte alle varie situazioni di povertà i primi a rispondere sono gli uomini di chiesa, che sentono il dovere religioso ma anche civico di rispondere a livello istituzionale, oltre che con una riflessione teorica. Sul piano pratico si evidenziano decreti a favore di regolare assistenza ecclesiastica per gruppi di lebbrosi e a ospedali per l'accoglienza di pellegrini, forestieri, malati e mendicanti, quali quello di Santo Spirito in Roma voluto da Innocenzo III. A quest'ultimo e a molti altri autori si deve una propria riflessione sulla povertà che va a rilanciare e riproporre fortemente, come rimedio efficace, la tradizionale dottrina della chiesa dell'elemosina. Sulla scorta della tradizione biblica, quest'ultima è un atto di giustizia, dovere da parte di chi possiede – i beni non sono che un prestito che il Creatore ha fatto –, ma anche diritto da parte del povero in caso di estrema necessità di prendere quel che gli è necessario per vivere. Da qui la prassi dell'elemosina per salvarsi l'anima, cancellando i peccati, senza però intaccare i pregiudizi correnti riguardo ai poveri che continuano a restare estranei ed esclusi dalla società, guardati ancora con paura e disprezzo. Anche il mercante di Assisi, che ben conosceva il valore del denaro, fattosi fratello di tutti partirà da questa impostazione di elemosina come dovere di giustizia e non a caso dirà: «elemosina est hereditas et iustitia, quae debetur pauperibus» (Regula non bullata, IX: FF 31). Oltre ai lebbrosi, l'autore passa poi, con l'ausilio delle fonti, a cogliere gli altri poveri incontrati da Francesco: sono i mendicanti stessi non lebbrosi né necessariamente malati – come quello che lo visitò nella sua bottega e che fa intravedere qualcosa dell'animo di Francesco formato agli ideali della cultura cortese che non poco l'influenzò –, sino ai latrones, persone marginali e violente che più volte, come riferiscono le fonti, entrarono in contatto con l'Assisiate e i suoi frati. È così, da mendicante, con decisa scelta di povertà volontaria, come i poveri senza alcuna garanzia e potere, che Francesco vuole vivere dopo che i lebbrosi l'hanno istruito e convertito. La motivazione sta nel vangelo che dice a Francesco, dopo il dono dei fratelli, chi essere e che cosa fare: come gli apostoli non «possedere né oro né argento, né... ma soltanto predicare il regno di Dio e la penitenza». Ascoltando il vangelo Francesco scopre che Gesù e i suoi fratelli conducevano una vita simile ai poveri che egli aveva incontrato e sceglie di conseguenza di vivere anche lui come loro. Partendo dalla consapevolezza evangelica del Signore che si è fatto povero per noi in questo mondo, Francesco non vuole fare qualcosa per i poveri, ma diventare povero egli stesso. Uno stile di vita nuovo, caratterizzato dalla mendicità con l'elemosina che fa da elemento distintivo di tale scelta: «I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo servendo al Signore in povertà e umiltà, vadano per l'elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo» (Regula bullata, VI: FF 90). Per Francesco chiedere l'elemosina non è un'umiliazione, ma un modo per conformarsi alla povertà di Cristo, per vivere da pellegrini e forestieri, cioè come poveri. Una delle prime conseguenze di tale direzione è il fatto che, nel gruppo di compagni che si forma attorno a lui, sono subito accolti e trattati alla pari, da fratres, anche dei poveri, gente non “letterata” che non sapeva leggere e scrivere. Uno stile che presto, poco dopo la morte di Francesco, verrà smesso, passando, per usare una formula che ha avuto fortuna, da una “povertà vissuta” a una “povertà pensata”. L'autore indaga su questa repentina trasformazione e sulle sue molteplici cause: tra queste, quella di un Ordo composto prevalentemente da chierici, che è divenuto numeroso e che ha raggiunto le città e le università: i frati sono ancora poveri, perché giuridicamente non posseggono nulla a livello personale, ma non somigliano più agli altri poveri. Scelta della povertà dunque, ma non scelta dei poveri per un bisogno di distinguersi dai mendicanti, poveri per necessità: i frati hanno scelto sì la povertà, ma la loro povertà è di tipo diverso da quella di chi è nella strada. Forse all'origine di tale atteggiamento vi è il “costo” di chi aveva sperimentato sulla propria pelle il disprezzo normalmente riservato ai poveri. Eppure nella costruzione della memoria francescana, e quindi dell'identità del nuovo Ordo, il tema dei poveri per necessità continuò a inquietare ancora per molto tempo la coscienza dei poveri volontari, come testimoniano le agiografie del primo secolo francescano, quelle ufficiali e soprattutto le fonti semiclandestine: a tale proposito l'autore legge e commenta pericopi significative di alcune legendae. Verso la conclusione del suo contributo, Bartoli chiede provocatoriamente «Dove sono andati a finire i lebbrosi?», facendo notare che la loro emarginazione riguarda sin da subito sia il dato agiografico sia quello iconografico, come si evince dalla chiesa voluta per celebrare la gloria di san Francesco, la basilica di Assisi, ove questi, insieme agli altri “poveri di strada”, non ci sono. Presenze, sottolinea l'autore, giudicate forse troppo ingombranti in un progetto iconografico che doveva esaltare la povertà volontaria dei frati. Preziosi anche i due capitoli che l'autore riserva al rapporto di Francesco con i “poveri cattivi” di cui icona è il povero divenuto, dalle parti di Gubbio, “lupo” feroce: smontano ogni aura di poesia sulla povertà e l'accusa di “buonismo” – come oggi si direbbe – da attribuire all'atteggiamento di Francesco nei loro confronti. In conclusione, lo studio di Bartoli – preceduto dall'introduzione di Franco Cardini – si rivela quanto mai illuminante per un tempo come il nostro in cui idee di paura e disprezzo verso i poveri che s'affacciano alle nostre terre per sfuggire a fame e violenze, riaffiorano con preoccupante tensione. La vicenda del pauper Franciscus può aiutarci a percorrere anche oggi vie di umanità e fraternità. Francesco ci consegna la sua esperienza, lui che prima di essere il pater pauperum secondo la definizione del Celanese, scelse di essere, semplicemente, pauper Franciscus, il povero Francesco, fratello di tutti.
Tratto dalla rivista Il Santo XLIX, 2009, fasc. 2-3
(www.centrostudiantoniani.it)
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