Dio sulle tracce dell'uomo
-Saggio di teologia della rivelazione
(Universo teologia)EAN 9788821575235
Come precisa la breve Prefazione di Piero Coda (pp. 5-8), siamo di fronte a un’opera «singolarmente matura» (p. 5) del teologo calabrese Giovanni Mazzillo, il quale scrive un trattato de revelatione la cui prima parte (pp. 27-124, in tre capitoli) esamina «la rivelazione alla luce della relazione e la relazione alla luce della rivelazione» (p. 128). Detto altrimenti, sulla scia di una selezionata e ampia bibliografia, molto attenta alla teologia di lingua tedesca (cf. pp. 311316), dopo aver già pubblicato una filosofia della rivelazione (L’uomo sulle tracce di Dio. Corso di introduzione allo studio delle religioni, Napoli 2004), egli ora riflette analiticamente sul progressivo cammino compiuto da Dio nella storia degli esseri umani nei termini della “fenomenologia dell’incontro”. A sua volta, la seconda parte (pp. 125-310, in tre capitoli) avvia una riflessione sistematica sulla rivelazione cristiana che, come insiste Mazzillo, «non può prescindere dall’insegnamento del Vaticano II» (pp. 133-134), il Concilio che, superando il punto di partenza classico che premetteva una nozione di rivelazione in generale a ogni ulteriore approfondimento, preferisce partire immediatamente dall’evento concreto della rivelazione storica, così come realizzata in Gesù Cristo.
La teologia della rivelazione diviene, così, una «teologia dell’incontro e della separazione» (p. 289), condotta da Mazzillo sulla scia della dinamica sponsale che egli raccoglie dal Cantico dei cantici, per cui l’amore di Dio per il suo popolo è tale che, seppur non necessitato e non comandato da un primo movimento umano, l’Assoluto si mette, appunto, sulle tracce dell’uomo (cf. Introduzione, pp. 11-26), ovvero istituisce in termini relazionali il suo manifestarsi al soggetto umano (cf. p. 29). Mazzillo, anzi, si dice convinto che «ogni relazione è anche rivelazione» (p. 34), non nel senso della confusione dell’atto rivelativo del Dio con la relazione in genere, bensì nel senso «che la relazione rappresenta sempre una sorta di autotrascendimento» (p. 34) anzitutto a livello umano, come del resto evidenziano la letteratura, l’arte, la filosofia degli ultimi decenni, che hanno invertito una certa tendenza all’assolutizzazione della soggettività, presente nella modernità, che aveva reso l’essere umano un «io monade autosufficiente e autolegittimante» (p. 43). Sulla scia della filosofia, anche la teologia ne era «rimasta profondamente influenzata, al punto che qualcuno ha potuto rimproverarla di essere affetta da un insanabile individualismo» (p. 45: si allude a Johann Baptist Metz). Mazzillo smaschera l’aporia della soggettività pensata come assoluta, invitando a riscoprire l’intersoggettività, con e oltre Husserl, fino a giungere senza remore al dialogismo di Buber (cf. p. 59). Scoperta la propria capacità di apertura al tu, l’essere umano diviene, infatti, capace di «dischiudersi sempre e nuovamente a quel Tu di ogni altro tu che per noi è Dio» (p. 63) e, più particolarmente, alla pienezza di tale rivelazione, cioè a Gesù Cristo (cf. p. 66). In questo senso, da accidente qual era nella tradizione metafisica, la relazione diviene ontologicamente sussistente, consentendo così di parlare del Dio Tri-uno come una sola essenza in tre relazioni sussistenti. In tal modo, la relazione in Dio ci svela anche «le nostre tracce intrise di nostalgia di unione, perché egli stesso è comunione» (p. 74). E in tal modo, ciò sospinge a riscrivere il trattato classico di ontologia, sottraendo a esso «un’impostazione che […] pur senza essere idealista, attinge tuttavia il realismo dell’essere come realtà monoelementare di tipo statico» (pp. 75-76), aprendolo, piuttosto, alla profondità del mistero trinitario che ci si manifesta nella fede. Troppo appiattita su Parmenide, nella ricostruzione critica di Mazzillo, l’ontologia classica conservava, infatti, una concezione di base che «resta dunque ancora quella grezza di un essere che proviene sì dal sommo Essere, e tuttavia non attinge la relazione come suo carattere fondamentale» (p. 81). Con Lévinas, ma anche con Empedocle e con altri pensatori della tradizione meridionale (soprattutto Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella), la teologia della rivelazione, propone Mazzillo, va tratteggiata come al di là della razionalità «del razionale monologico e monocausale» (p. 91), fino a poter «cogliere un co-principio […] come amore o come calore e forza coesiva e aggregante, in quanto sorgente della realtà» (p. 91). Il rischio, tuttavia, oltre alla curvatura antropologica della relazione e dell’amore, è quello di ridurre la rivelazione a una successiva o condizionata risposta di Dio al dinamismo già umano (cf. p. 13). Più volte nel corso di questo volume Mazzillo puntualizza, anche per evitare facili critiche, che la centratura sulla relazione e sull’incontro del discorso teologico, pur con la sua curvatura antropologica, non intende minimamente «annullare la sovranità di Dio o la libera adesione dell’uomo a lui» (p. 93), né costruire una rivelazione dedotta “dal basso” (p. 123; cf. pure p. 127, dove si ribadisce che non è la comunicazione umana a produrre quella divina; nonché p. 278, dove si ricorda che non esiste un’evoluzione successiva da precedenti forme religiose a quella giudaico-cristiana, quasi in una genesi dal basso della rivelazione cristiana). La relazionalità è, infatti, in Dio necessaria soltanto nelle relazioni ad intra fra le tre Persone divine, mentre ad extra quel Dio Tri-uno, che si mette sulle tracce dell’essere umano, attiva pur sempre una «relazionalità verso l’esterno […] sempre voluta liberamente e sempre realizzata nuovamente attraverso atti salvifici continui, passando attraverso ciò che si può anche indicare come intervento redentivo continuo di Dio» (p. 93). In definitiva, anche se siamo all’interno di un’esperienza vissuta dall’essere umano, la rivelazione viene esperita dall’uomo come via d’accesso ordinariamente straordinaria non attivabile solo e semplicemente dall’io in forza del suo io, ma in forza dell’altro come altro, proprio grazie alla sua alterità» (p. 99). Detto diversamente, anche se l’iniziativa di Dio resta non necessitata e libera, essa attiva comunque una soggettività personale umana la quale, già per sua natura, è «sede di relazioni costitutivamente intersoggettive» (p. 105), in maniera che, in linea con il trascendentale di Karl Rahner piuttosto che di Immanuel Kant (cf. p. 114), «l’esperienza è possibile grazie all’apriori trascendentale che consente all’essere uomo di spaziare al di là della singolarità, dell’immediato e del concreto» (p. 103). Come peraltro hanno ribadito i pensatori della filosofia dialogica contemporanea, soprattutto Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas (cf. p. 115).
Nei tre capitoli della seconda parte, sulla base dei presupposti fissati nei primi tre capitoli del volume, si guarda «più da vicino il cammino compiuto da Dio attraverso la sua comunicazione storica attestata dalla Bibbia» (p. 128), affrontando «temi più complessi quali la natura, l’oggetto e il metodo dell’autocomunicazione di Dio» (ivi). Rispetto al razionalismo della concezione illuminista e al dubbio sistematico di quella positivistica, Mazzillo si lascia soprattutto guidare «dall’insegnamento del Vaticano II» (pp. 133-134) che, a partire dalla Dei Verbum, ha consacrato un vero progresso nella teologia fondamentale, con metodo storico e teologico, come puntualizzato da Salvador Pié-Ninot (Teologia fondamentale, Brescia 2007, 24). Risultano, in tal modo, smentiti diversi tentativi teologici che avevano, per esempio, puntato su una non del tutto corretta interpretazione di pseudo-Dionigi Areopagita per parlare del “silenzio di Dio” piuttosto che della sua manifestazione. Mazzillo, in merito, taglia corto, in quanto non ritiene «che si possa sistematicamente ricorrere al tema del silenzio per una teologia della rivelazione pienamente coerente con i presupposti già abbozzati della rivelazione come comunicazione» (p. 140). Risultano altresì smentite anche certe interpretazioni della rivelazione che, insieme con lo svelamento, supponevano un nuovo velamento o infittirsi del velo (cf. p. 143). In tal modo, «la rivelazione sembra così, più che un velamento, un’autoattestazione del mistero o, come Tillich si esprimeva, un rendere palese ciò che rimane verborgen, un termine che può significare non solo ciò che è “segreto”, ma anche semplicemente il “non accessibile”» (p. 147).
In positivo, la teologia della rivelazione chiede di affrontare delicate questioni, quale, per esempio, il valore da attribuire alle altre religioni rispetto al processo rivelativo del Dio degli ebrei e dei cristiani. Rispetto a certe posizioni ai limiti dell’eterodossia, Mazzillo sostiene «che se lo Spirito di Dio agisce anche nelle altre religioni e nell’esperienza religiosa, ogni esperienza religiosa» (pp. 155-156) dispone comunque di profezia, ovvero di quel «mezzo meraviglioso con il quale l’Assoluto rende gli uomini consapevoli dell’inadeguatezza della religione, dei suoi limiti e talora dei suoi tradimenti» (p. 156). In ogni caso, la rivelazione attestata nei libri biblici, che considerano la verità in termini di èmet piuttosto che di correttezza formale o corrispondenza, si manifesta sempre come appello diretto dell’amore divino all’essere umano, per cui «se c’è un Dio che è amore e quest’amore è l’Amore totale, è plausibile che si sia rivelato come tale, fino al dono totale di sé» (p. 178: siamo quasi di fronte a un argomento di convenienza della rivelazione intesa nei termini di comunicazione e di interrelazione). Con felice consonanza con altre fedi e religioni, il cristianesimo si mostra, quindi, come rilevazione dell’amore, ovvero «come relazione e come dialogo» (p. 187). Tutto ciò non è solo frutto del Vaticano II, anzi già il Vaticano I, peraltro sulla scia del concilio tridentino, segnalava opportunamente che la rivelazione include «lo svelamento non solo di verità da conoscere e da accettare con la luce della fede, ma anche la manifestazione che Dio fa di se stesso» (p. 193). Osserva Mazzillo che si tratta di un amore che assicura irreversibilmente e fedelmente, cioè infallibilmente, l’agire di Dio (p. 204: la stessa infallibilità come privilegio della componente magisteriale della chiesa ne viene, anzi, illuminata). Anche sul piano storico, tale concezione di rivelazione, approfondita in campo protestante da Oscar Cullmann e, in campo cattolico, dalla Scuola di Tubinga, permette di pensare che Dio «conduca la storia attraverso il fermento e il discernimento della sua Parola, fino a indicare nelle vittime della storia i suoi veri soggetti e protagonisti» (p. 219) o, detto altrimenti, che «la storia universale della salvezza è nel contempo storia della rivelazione» (p. 226), sia nella sua fase giudaica che gesuana. In tal modo, Mazzillo associa felicemente i risultati di Rahner (ricerca del senso condotta sui sensi parziali e sull’orizzonte di senso sempre più grande cui ciascuno dei sensi parziali rinvia) con quelli di Hansjürgen Verweyen (ricerca del senso sul versante della libertà). Cosicché, come già aveva intuito Gioacchino da Fiore, davvero si può cogliere una concordia Novi ac Veteris Testamenti, per la quale si dà un’«unità profonda del popolo di Dio come un’unica realtà, dai patriarchi dell’Antico Testamento ai santi dopo Cristo» (p. 264), la quale a sua volta riflette l’unità trinitaria. Ecco perché ogni teologia che oggi si occupi della storia non potrà che partire dall’abate calabrese (cf. p. 268), per scoprire in azione l’amore salvifico di Dio-amore di padre ma anche di madre, amore sponsale e reale, capace di non cercare semplicemente il proprio appagamento, ma di patire con gli altri (cf. p. 293) come mostra il segno della croce. Effettivamente «si tratta di quell’Amore che, diventato carne e disceso nella storia, continua ogni giorno di più a svelare il mistero nascosto eppur reale della nostra natura umana e della nostra storia»
Tratto dalla rivista "Aprenas" n. 3-4/2013
(http://www.pftim.it)
Il saggio costituisce l’approdo della lunga e intensa riflessione condotta da G. Mazzillo nell’ambito della teologia fondamentale. L’opera può essere considerata come la seconda parte di un progetto più ampio. Già qualche anno fa, infatti, l’A. aveva proposto un testo relativo allo studio delle religioni dal titolo L’uomo sulle tracce di Dio. Nelle intenzioni dell’A. l’attuale pubblicazione vuole essere come il compimento dello studio e della presentazione di quel complesso e affascinante dinamismo relazionale che è la realtà dell’incontro tra l’uomo e Dio.
Il saggio si divide in due parti. La prima consta di tre capitoli e si propone di presentare quelli che l’A. definisce i presupposti della Rivelazione; la seconda, anch’essa composta di tre capitoli, si dipana intorno all’idea che, nella visione cristiana, la Rivelazione di Dio può essere declinata ed esplicitata come l’auto comunicazione di Dio che è amore. La prima parte del libro dunque mette a fuoco le linee portanti che caratterizzano i moderni trattati sulla Rivelazione alla luce della categoria centrale di relazione. E nella dimensione della relazionalità, infatti, che l’A. coglie, tanto in Dio quanto nell’uomo, le condizioni di possibilità che rendono plausibile sia la Rivelazione che la sua accoglienza.
L’A. parte proprio dall’evidenza, emergente dall’esperienza umana, che ogni forma di Rivelazione non può darsi senza relazione. Ma analogamente egli sostiene che non si da ?nemmeno relazione che non sia anche contemporaneamente una certa forma di rivelazione ? (29). Mentre la prima affermazione e facilmente condivisibile perché constatabile in ogni “figura “di esperienza religiosa, più o meno riferibile ad una visione personale di Dio, la seconda deve essere bene intesa. Ogni relazione e rivelazione nel senso che nel dinamismo di autotrascendimento che la relazione esprime, l’uomo acquisisce una nuova comprensione di sé che gli proviene dall’accadere di un incontro in cui l’a/Altro si manifesta. È possibile, in questa prospettiva, risalire dalla prassi relazionale alla natura relazionale dell’uomo. L’uomo e relazione, apertura di un io ad un tu. Solo a partire dall’incontro con il tu che gli sta di fronte l’uomo perviene alla consapevolezza del proprio io e nel perenne e sorprendente rinnovarsi di questo incontro con l’alterità del tu viene gettata sulla comprensione dell’io una luce sempre più intensa che ne manifesta la verità piena. La centralità accordata alla relazionalità umana e questo modo di interpretarla, devono tanto alle importanti acquisizioni di quella corrente di pensiero che viene indicata con il nome di personalismo dialogico, in parte riconducibile alla filosofia di matrice ebraica che ha i suoi rappresentanti di spicco in autori come M. Buber e E. Levinas. Questi autori hanno portato a piena maturazione intuizioni presenti già, ad esempio, nella fenomenologia husserliana. Grazie anche alla fecondità di questa riflessione filosofica si sono potuti valicare i confini troppo angusti del monologismo e di una ontologia ancorata al concetto statico di sostanza. Quest’ultima, in particolare, e avvertita ormai come troppo estranea all’immagine cristiana di Dio e perciò fortemente inadeguata a descriverne la dinamica rivelativa ed amante. Ci si muove qui sul crinale di una istanza che come una fiume carsico – a partire dal pensiero di Parmenide piuttosto che da quello di Empedocle – ha attraversato la storia della filosofia e della teologia e che oggi prende finalmente forma nella proposta di una ontologia trinitaria (cf. la proposta di K. Hemmerle) che ponga la relazione non più come elemento accidentale bensì come dato costitutivo per qualificare la specificità cristiana nel dire l’essere ed il rivelarsi della Triunità divina. A proposito della definizione di Triunità, Mazzillo mostra di prediligere questo paradigma perché renderebbe meglio il senso dell’unita, pur nella distinzione, tra le tre Persone divine.
Seguendo la linea della relazionalità ci si incontra inevitabilmente con il dato della esperienzialità umana che della relazionalità e espressione. La relazionalità e una componente strutturante l’uomo e congiunge l’orizzonte trascendentale con il piano categoriale dell’esistenza, per cui l’esperienza dice quell’apertura incondizionata all’altro che si attua nell’evento comunicativo tra due soggetti, tra un sé e un altro da sé. Questa comunicazione, come chiarisce J. Habermas, postula un’apertura all’altro che sia carica di un atteggiamento di piena e reale fiducia nell’efficacia della comunicazione stessa e in colui che si pone come mio interlocutore. Una fiducia, pero, che ?si può basare solo su un Tu che non inganna, che è sempre solidale e che garantisce la riuscita dell’esistenza? (121). C’è allora una struttura dell’esperienza trascendentale e della comunicazione umana che “sbocca “in un’apertura al Trascendente che pero – avverte l’A.– non può mai essere usata per dedurre la Rivelazione, quasi fino a predicare una necessita in Dio, quella appunto di rivelarsi. Il discorso condotto nei primi tre capitoli veicola piuttosto una visione unitaria della realtà, con-globante il naturale nel soprannaturale e l’esistenziale nel trascendente. Tutto ciò mostra come – secondo l’insegnamento rahneriano nel cui solco l’A. si pone saldamente – essendo l’esperienza umana orientata all’esperienza di Dio, la natura non può essere scissa dalla grazia giacche senza grazia non si dà natura. Perciò la grazia struttura l’uomo e lo apre sul piano esistenziale alla trascendenza, creando così di fatto i presupposti all’epifania dell’Altro, cioè alla Rivelazione di Dio.
La seconda parte del saggio si apre con il capitolo relativo alla presentazione della Rivelazione come auto comunicazione di Dio all’interno di un rapporto dialogico; rapporto instaurato da Dio stesso che è colui il quale sempre pone il primo atto comunicativo. Fatti salvi i soggetti della Rivelazione – Dio e l’uomo – l’A. individua i due schemi interpretativi, le due letture possibili della Rivelazione stessa a partire dalla considerazione della sua oggettualità e della sua modalità. Alla domanda su che tipo di atto comunicativo si instauri all’interno della Rivelazione, le risposte fornite lungo la storia della teologia vanno in due direzioni fondamentali: quella della teologia apofatica e quella della teologia catafatica. La prima via, quella negativa, tende a porre l’accento sull’inadeguatezza di ogni forma di conoscenza umana di Dio; e pertanto una teologia ?al limite del silenzio? (137). La seconda via, di tipo “affermativo “, sottolinea invece la portata veritativa della Rivelazione fino a riconoscerne la forza normativa, in virtù dell’ “essere-Verità “di colui che rivela e si rivela.
Sono due i livelli implicati nell’idea di Rivelazione, quello riguardante la realtà dialogica dell’auto comunicarsi di Dio che investe tanto colui che si rivela quanto colui che di questo atto rivelativo fa esperienza (rivelazione come atto o rivelazione come evento) e quello relativo all’effetto dell’atto comunicativo di Dio che e il consolidarsi del cosiddetto depositum fidei, di quelle verità rivelate che si sono sedimentate nella verbalizzazione orale e scritta e che richiedono l’accoglienza della fede dentro il “dinamismo della tradizione “(rivelazione come dato). Mazzillo, inoltre, non fugge ma affronta in maniera pacata ed equilibrata la problematica ecumenica legata alla Rivelazione ed in particolare alla sua pretesa di autolegittimazione presente, in forme e misure diverse, in tutte le espressioni religiose. Recuperando il pensiero di P. Tillich e adducendo come caso esemplare della complessità e della delicatezza del discorso il caso di J. Dupuis, l’A. mette in luce la tragica deriva fondamentalista di uno schema di comprensione qual e quello dell’esclusivismo. Tuttavia, pur propendendo per una lettura che va nella direzione dell’esclusivismo, l’A. non ignora il fatto che anche questo modello interpretativo del rapporto tra le religioni e del loro contenuto di “rivelazione “sia esposto a rischi concreti, come nel caso rappresentato dal modello del cosiddetto teocentrismo pluralista che finisce, di fatto, con il livellare tutte le “rivelazioni “negando ogni pretesa di normatività alla rivelazione data in Gesù.
A questo punto si tratta di far risplendere il nodo centrale, il punto incandescente della Rivelazione cristiana che la rischiara e la legittima al cospetto di ogni altra forma di “Rivelazione “. Lo specifico della Rivelazione cristiana e dato dall’Amore. Dio e il ?Trascendente in quanto Amore? (168), Triunità divina che è in sé stessa Comunità d’amore. Tutto ciò sta in perfetto rapporto simbiotico con la struttura antropologica. Il Trascendente attira e convoca a sé l’uomo che – con una definizione di Rahner – e definibile come suchende memoria, memoria che cerca, cerca l’amore perché da questo amore proviene, di questo amore e esistenzialmente “impregnato “, verso questo stesso amore e ultimativamente incamminato.
Dopo aver presentato il modello della rivelazione che è stato dominante fino alla costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I, ossia il modello “proposizionale “nel suo carattere essenzialmente teoretico-istruttivo, Mazzillo descrive il passaggio al modello “personale “affermatosi soprattutto grazie all’apporto della costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione del Vaticano II Dei Verbum. Inoltre, il parlare di Dio come ad amici espresso dall’insegnamento conciliare ci riporta a quella synkatabasis (condiscendenza) che narra la pedagogia di Dio nel suo comunicarsi all’uomo, un comunicarsi che pertanto non può che avere luogo nello “spazio “proprio dell’uomo che è la storia. L’A. ricorda che, nonostante le intuizioni per alcuni versi quasi “profetiche “di pensatori come Gioacchino da Fiore, la categoria di storia e stata solo recentemente acquisita dalla riflessione teologica. Tra i contributi più significativi in questo senso, l’A. menziona quelli di Cullmann e Pannenberg. L’agire ed il rivelarsi di Dio nella storia presentano il carattere della gradualità e della mediatezza; sono, cioè, sempre pienamente rispettosi della liberta accordata all’uomo di dare il proprio assenso e la propria cooperazione all’operare di Dio e si realizzano solo attraverso l’esercizio pieno di questa libertà. Il libro della storia, come del resto anche quello della natura, reca l’annuncio del grande messaggio di un Dio che è amore. Esiste una coestensivita tra storia della salvezza – che è la storia dell’umanità – e storia della Rivelazione, cosicché questa storia si presenta, secondo il dire di A. Torres Queiruga, come un processo maieutico che dispone l’uomo ad una accoglienza sempre più piena dell’amore che Dio ha già pienamente rivelato e donato. L’A. fa anche opportunamente notare come la centralità della storia nella concezione cristiana della Rivelazione scaturisca direttamente dalla visione del NT. Qui la storia acquista un ruolo di assoluta centralità e riceve una comprensione del tutto nuova per la portata dell’evento Cristo che è evento escatologico, punto di ricapitolazione della storia umana, nodo di raccordo tra protologia ed escatologia.
Nel capitolo conclusivo l’A. ribadisce la plausibilità della Rivelazione come auto comunicazione di Dio in quanto epifania dell’amore capace di ?intercettare la ricerca dell’uomo, nei vari livelli ai quali essa si colloca? (271). Potremmo dire che si dà anzitutto una convergenza sul piano trascendentale tra il desiderio di Dio di offrire a tutti la salvezza e l’insopprimibile ricerca di questa salvezza da parte dell’uomo, pur permanendo l’abisso tra la ricchezza divina e la povertà umana. Questo abisso e, per la Rivelazione cristiana, uno iato che solo Dio può colmare e di fatto colma nell’incarnazione del Verbo. Nella visione giudaico-cristiana, infatti, la Rivelazione di Dio come amore si consegna all’uomo nella Parola. Attingendo a questa Parola nella sua forma scritta, l’A. mostra le tappe salienti della Rivelazione biblica che conducono alla definizione esplicita di Dio come amore. L’amore di Dio per il suo popolo, già nell’AT, e presentato come amore sponsale e paterno/materno. Ed e proprio la dimensione paterna di questo amore che viene pienamente manifestata in Gesù, Figlio del Padre. In lui l’uomo può “toccare “la compassione di Dio per l’umanità povera e sofferente; in lui può contemplare il vero volto del Dio amore nel volto del Dio crocifisso. La croce del Figlio e, per dirla con Balthasar, il ponte sullo iato che fa entrare l’uomo in contatto reale e personale con il mistero amante del Dio vivente.
Tratto dalla rivista “Rassegna di Teologia”n. 1/2014
(http://www.rassegnaditeologia.it)
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