Io non smetterò di ammaestrare i frati
-La pedagogia di Francesco nella "Compilatio assisiensis"
EAN 9788820994723
La Compilatio assisiensis è una raccolta di materiale che affiancava – e integrava – l’opera ufficiale di s. Bonaventura – Legenda Maior Sancti Francisci – a beneficio comune, realizzata in seguito alle decisioni del Capitolo generale di Padova del 1276, in contrasto con le decisioni prese dieci anni prima dal Capitolo di Parigi. Pubblicata per la prima volta nel 1922 da F. Delorme e da lui denominata Legenda antiqua S. Francisci, viene ora presa in esame, oltre che da un punto di vista storico-filologico, dall’angolazione propriamente pedagogica. Non essendo strutturata secondo i canoni della consolidata tradizione agiografica, la Compilatio con gli episodi che rievoca, con le reazioni a eventi incresciosi che descrive, o con le risposte a domande impertinenti o soltanto inusitate che riporta, ci restituisce un Francesco vivente, con le sue sofferenze fisiche e morali, mansueto ed energico, fragile ma non agitato, intransigente in merito alla povertà e tuttavia sempre attento alle molte circostanze della vita. Oltre quello introduttivo, dedicato alla genesi, all’originalità e alla logica interna del testo (pp. 17-56), i quattro capitoli, che costituiscono la sostanza del volume, riguardano rispettivamente il rapporto tra governo e ideale della nuova famiglia in via di configurazione, sia spirituale che giuridica (pp. 57-84), Francesco intimo (pp. 85-105), il desiderio dei frati di sapere (pp. 109-136) e finalmente la tempra umano-spirituale di Francesco davanti alla malattia e alla morte (pp. 137-166). Sono tutti squarci di inusitata freschezza, che occorre leggere e meditare, seguendo le piste riflessive dell’autore, frutto di una consuetudine con le fonti, rara e per questo preziosa.
Volendo accennare a qualche aspetto di questa sinfonia di motivi, che ci immettono con apparente ingenuità ma in realtà con grande profondità nella complessa personalità di Francesco, con accentuazioni significative e talvolta sorprendenti, si richiami il binomio ‘paupertas’-‘hilaritas’. La gioia fa tutt’uno con l’essere, ne è il volto quotidiano. Se non sempre si impone da sé, occorre volerlo – omnes fratres… debent gaudere (RnB IX) – anzi occorre educare ad amare Dio ‘cum gaudio et letitia’ (Adm. XX). Per colui che vive in comunione con Dio anche un temporale è una festa. Manifestare la gioia in terra è un impegno, perché comporta quella vigilanza a non caricarsi di cose, che possano appesantire lo sguardo piegandolo in basso, e dunque implica quell’abbandono a Dio che nulla deve scuotere, dal momento che non si fonda sulle creature ma ha luogo assieme alle creature. La povertà ne è l’alimento costante. L’‘hilaritas in Domino’ è l’ultima parola di Francesco – il Cantico delle creature.
I suoi figli più attenti lo hanno compreso, testimoniando la povertà non solo nella vita quotidiana ma anche nell’esercizio intellettuale – suggestivo il capitolo relativo al sapere (pp. 109-139) – non sottraendosi alle sfide del tempo, ma non identificandosi con alcuna risposta, fragile come tutto ciò che è umano. È l’efficacia della povertà – la trascendenza come destino del proprio essere – di grande attualità, dal momento che oggi ci si lascia inconsapevolmente sopraffare dalle proprie tradizioni, culturali e religiose. La povertà contesta questa piega, fonte primaria di conflittualità, al punto che si potrebbe forse dire che quella francescana, proprio perché qualificata dalla povertà, può dirsi scuola di libertà liberante da tutte le forme idolatriche, messa alla prova dalla capacità di non lasciarsi catturare (reducere in captivitatem) da ciò che accade ‘quaggiù’. In quest’ottica la povertà non solo è il tratto distintivo della famiglia francescana, ma è una feconda grammatica di lettura dei fenomeni di carattere conflittuale e insieme spazio ideale per un’effettiva pacificazione tra i popoli. Da qui l’invito a sostare su queste pagine guardando lontano e in alto, oltre quella autoreferenzialità, sorgente remota di tutte le vessazioni – “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” – al centro dei richiami di Francesco.
Dio non si rivela nelle prove che la ragione elabora a suo sostegno. Dio vive e opera nell’esperienza dell’anima, aperta a Dio, descritto come “invisibile”, nel senso che nessuno occhio può vederlo; “inenarrabile, ineffabile”, nel senso che nessuna parola può raccontarlo; “incomprensibile, ininvestigabile”, nel senso che nessuna intelligenza può comprenderlo. È il mare nel quale naufragare, la fonte inesauribile cui attingere forza e consolazione per far fronte al fardello della vita o al fascino soverchiante delle creature. Francesco sollecita a immergersi nel mondo trinitario che cerca di rendere in molti modi – sono 86 i titoli con cui invoca Dio – al seguito di Cristo, colui che non aveva ove posare il capo se non sul cuore del Padre. Affonda in questa sorgente la povertà francescana, così come di essa si alimenta la letizia, che ne conferma la condivisione.
Sono pagine pedagogicamente illuminanti, queste della Compilatio Assisiensis, su cui occorre sostare, perché non sfugga quella pluridimensionalità che la semplicità dello stile dei primi Compagni di san Francesco e l’immediatezza dei resoconti, criticamente ripensati e fedelmente riportati, lasciano chiaramente trasparire. Si è alla fonte della pedagogia francescana, secondo cui il controllo del corpo è condizionato all’alimento dell’anima, sostenuta dalla forza seduttiva della prima esperienza minoritica, cui il testo ci richiama, con suggestioni di sorprendente attualità.
Tratto dalla rivista "Miscellanea Francescana" n. I-II/2015
(http://www.seraphicum.com)
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