Mariale aureo
(Teologia e spiritualità mariana)EAN 9788810808559
Furono anni davvero intensi, quelli di fine secolo XIII, compresi nel decennio che va dal 1289 al 1298. Per descriverne il clima, basti ricordare la battaglia di Campaldino e la caduta di San Giovanni d’Acri, ultimo baluardo del regno crociato di Gerusalemme, conquistato dal sultano d’Egitto; basti far tornare alla mente il tentativo dei fratelli Vivaldi, naufragato miseramente in Senegal, di circumnavigare l’Africa e l’imprigionamento di Marco Polo dopo la battaglia di Corsola; nonché le nuove regole che iniziano a vigere nelle città italiane, perché se a Firenze (1293) Giano della Bella, capo del movimento antimagnatizio, fa approvare gli Ordinamenti di Giustizia e così non può partecipare alla vita pubblica chi non sia iscritto alle Arti, a Venezia (1298) si registra la «Serrata del Maggior Consiglio», in modo che l’accesso al medesimo sia limitato alle famiglia che già vi abbiano partecipato.
E la Chiesa? Il 4 aprile 1292 muore Niccolò IV; il 5 luglio di due anni dopo è eletto papa Pietro da Morrone – «il santo ma debole monaco eremita Celestino V… nella speranza che un santo riesca a trasformare la Chiesa» (Duffy) –, che fu pontefice fino al 13 dicembre 1294 – cinque mesi, appunto – mentre Benedetto Caetani, con il nome di Bonifacio VIII, ascese al soglio il 24 dicembre dello stesso anno. Nel 1282, del resto, c’era stata la «rivolta del Vespro» con i siciliani, che scacciarono gli Angioini dall’isola e chiesero l’aiuto a Pietro III d’Aragona e due anni dopo, nella battaglia di Melonia, Pisa venne definitivamente sconfitta da Genova. Sono anni di guerre e di traffici commerciali molto intensi, anni di contrasti, di lotte e di censure, se ancora si pensa che nel 1288, proprio da papa Niccolò IV, si sentì la necessità di affidare ad ecclesiastici di provate virtù il compito di liberare dalla scomunica quei commercianti genovesi, che avevano continuato ad intrattenere rapporti economici con i siciliani al momento della guerra del Vespro. Papa Masci, convinto «delle loro capacità di documentazione e di soppesata valutazione» affidò questo oneroso compito a Rufino di Alessandria e Jacopo da Varagine, domenicano, che aveva retto la Provincia di Lombardia del suo Ordine e nel 1283 governò probabilmente l’intero Ordine dei Predicatori, dalla morte del maestro Giovanni da Vercelli presiedendo “la turbolenta elezione del successore, l’austerissimo Munio de Zamora”.
Egli, nato probabilmente nel 1229 ed entrato nell’Ordine dei Predicatori di San Domenico, era già molto noto non solo per gli innumerevoli incarichi di governo nel suo Ordine, ma anche per quella Legenda Aurea, giunta sino a noi e diventata oggetto di studio più di quanto adesso non sia un libro di lettura. Eppure, stando ad una fonte, proprio nel 1288, probabilmente in concomitanza con i problemi del Generale dell’Ordine, ci fu chi non esitò ad affermare: «Iste senex tot malorum causa est!». Era dunque, Jacopo, diventato inviso ai confratelli? Chi può dirlo? Un fatto è certo: nel 1292 fu nominato vescovo di Genova. La nomina avvenne proprio ad opera del francescano Nicolò IV, che non poté ordinarlo essendo morto nel frattempo. Ed a Genova, «iste senex» fu protagonista. Alcuni biografi scrivono che partecipò a complesse operazioni diplomatiche, nel quadro dei rapporti tra Genova e Venezia; tutti riferiscono dei suoi sforzi – piuttosto vani – tesi alla pacificazione delle due fazioni cittadine, Mascherati e Rampini (Ghibellini e Guelfi), dopo fortissime tensioni. «Durante il suo breve episcopato (sei anni), Jacopo attese intensamente alla predicazione, alla riorganizzazione della diocesi ed al ristabilimento della pace tra le avverse fazioni cittadine – hanno scritto molto di recente –, sia pure con effimeri successi; deluso ma non scoraggiato, proprio in quegli ultimi anni Jacopo si dedicò alla stesura del Mariale, che può quindi considerarsi il suo testamento spirituale». Quest’opera, con grande cura, viene ora portata a conoscenza del grosso pubblico, dopo che nel corso dei secoli di essa si sono conosciute diverse denominazioni: Sermones, o Sermines aurei de Maria Virgine Dei Matre, o Liber marialis, mentre le edizioni a stampa di riferimento sono sempre quella di Venezia del 1590 (Sermones aurei de Maria Virgine Dei Matre…, Venetiis adsignum Concordiae, MDXC) e l’altra di Tolosa del 1874 (Jacobi de Voragine Mariale aurem, a cura di A. Figarol, Tolosae 1874).
Padre Valerio Ferrua, del resto, domenicano come Jacopo da Varagine, non è nuovo a questo genere di recuperi visto che ha curato le edizioni di Vitae Fratrum, Fontes Vitae di san Tommaso d’Aquino e delle Legendae di san Domenico del Calò. «La nostra scelta – spiega Ferrua –, escludendo a ragion veduta il sermonario, ha privilegiato la denominazione che Jacopo stesso gli diede apponendogli soltanto l’appellativo “aureo”, come richiamo alla Legenda». Ed in questa traduzione italiana integrale, è stato compreso anche il capitolo, non presente in alcuni codici, riguardante il concepimento «non-immacolato» di Maria. «Sarebbe stato superfluo diffondersi in delucidazioni storico-teologiche – osserva il curatore –, essendo a tutti note le dispute che precedettero la definizione del dogma nel 1854». E così, da «Abstinentia», voce dettata dal fatto che «la beata Vergine Maria praticò varie forme… perché da quattro cose ci si può astenere», sino a «Vulnerata », perché «Maria fu ferita da molte spade e frecce», ecco spiegato l’universo mariano in un «unicum a livello letterario, anche se vanamente classificato come raccolta di sermoni di citazioni, di esempi, o come florilegio» (Gianfranco Ravasi (La fitness di Ignazio, in “Il Sole-24 Ore/Domenica”, 13 agosto 2006, p. 28): un «arazzo multicolore che ricorre in particolare a simboli (…)», giustificando così «le ragioni del successo di quest’opera nella pietà popolare e nella predicazione ».
Ogni parola su Maria, tuttavia, va collegata ed inserita nella storia della salvezza e nell’ottica trinitaria. La chiusura dell’opera, in questo senso, è davvero esemplare. «Benché molte sofferenze abbiano trafitto l’anima della beatissima Vergine, qui in modo particolare si designa quella che ne trapassò le viscere materne quando il signore morì sulla croce. Il quale – è la conclusione del Beato vescovo genovese – col Padre e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen». Nel prologo, del resto, egli aveva osservato: «… presto tornerò in cenere ed entrerò nel grembo della madre comune perché mi conservi nel riposo fino a quando mi partorirà, nella felice risurrezione, alla vita eterna». I novissimi guardando a Maria: il modo migliore per affrontare le «ultime cose» delle quali ciascuno è partecipe. E Jacopo scrive ancora: «Poiché dunque la gloriosa vergine Maria preserva dal peccato quanti operano a suo favore e munificamente ricompensa coloro che la onorano – come lei stessa dichiara: Coloro che lavorano per me non peccheranno e coloro che mi onorano avranno la vita eterna (Sir 24, 30-31) – per contribuire alla sua venerazione e per renderle omaggio, per sua ispirazione intrapresi questa operetta e con il suo aiuto la portai a compimento». Ora, avendo come vademecum il Mariale aureo nuove piste di ricerca si prospettano per lo studioso.
Ad esempio, ci si può chiedere: quanto le osservazioni di Jacopo da Varagine hanno influito nell’omiletica dei suoi confratelli domenicani nel corso del secoli? Una comparazione dei contenuti delle opere sarebbe opportuna, come indispensabile sarebbe anche «leggere» in questa prospettiva, i pregevoli dipinti conservati nelle chiese dell’Ordine dei predicatori o esposti nei musei. Si sa che la committenza monastica domenicana era esigente con gli artisti per quanto riguardava l’illustrazione del mistero, dettava il «tema» perché si fosse chiari ed efficaci soprattutto perché per secoli la pittura è stata, per eccellenza, la sacra scrittura resa «per immagini». Questo pregevole sforzo del P. Ferrua non sarà vano ed andrà oltre il merito del «libro in sé». Singolare coincidenza, infatti, vuole che, mentre le Edizioni Dehoniane pubblicavano il presente volume, sulla rivista «Aevum» (LXXX – 2006, fasc. II) sia comparso, ad opera di Nadia Carrisi, uno studio su «I nomi di Cristo e di Maria in un Libro d’ore quattrocentesco di Varese» (pp. 529-550), delineando così uno dei tanti esempi di percorsi paralleli sopra enunciati, che certamente susciteranno l’interesse degli studiosi, producendo nuove e, si spera, interessanti contributi di approfondimento nelle diverse discipline.
Tratto dalla rivista "Parola e Storia" n. 1/2007
(http://www.scienzereligiose-br.it)
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