Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l'incredibile fede di Dio nell'uomo
(Pastorale giovanile e animazione) [Libro in brossura]EAN 9788801039276
Sulla scia del precedente vol. Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione (cf. Regno-att. 6,2008,181), questo continua il progetto di «Prassi cristiana con i giovani» in un percorso di pastorale giovanile, che si concluderà con un 3o vol. Diviso in tre parti, il libro cerca di raccontare ai giovani la storia di Dio con l’uomo, tenta di «scoprire in Dio le parole sull’uomo e per l’uomo». Contiene numerose conversazioni con studenti della Pontificia università salesiana e alcuni dialoghi con studenti spagnoli pubblicati nel vol. Creado creador. Apuntes de la historia de Dios con el hombre (CCS, Madrid 1999).
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 8
(http://www.ilregno.it)
L’antropologia è la base della teologia. Non è uno slogan. È una scelta. È l’opzione fondamentale di Dio che si rivela. Dio non si inventa. Si autopresenta come un Dio con l’uomo, un Dio per l’uomo, un Dio nell’uomo. Un Dio a totale servizio dell’uomo. Un Dio in ginocchio a lavare i piedi dei suoi. L’ateismo contemporaneo poneva i rapporto Dio-uomo in termini di aut-aut. E al Dio comunicato senza storia si faceva riscontro con una storia dichiarata senza Dio La modernità, da Cartesio in poi, inizia il percorso antropocentrico che, a mano a mano, si fa antropometrico. Autosufficiente. Autarchico. Prescinde da Dio. È interessante rivedere le ragioni di quest’apostasia filosofica prima che teologica e storica. Nel n. 19 della Gaudium et Spes, si registra il coraggio della Chiesa del Concilio che attribuisce le responsabilità del “più grave fenomeno del nostro tempo”, come lo chiamava Paolo VI, anche ad una spuria catechesi e teologia disincarnata oltre che alla molteplice controtestimonianza, nonché allo scandalo davanti all’imperiosa presenza del Male. E tuttavia l’autorivelazione si incentra nell’evento dell’autodonazione. Non già, dunque, o Dio o l’uomo, ma Dio per l’uomo, da quando Dio si è fatto uomo. L’Incarnazione è evento. È paradigma. È ermeneutica dell’evento cristico e dell’intero fenomeno cristiano che, nel fieri humanum continua a dipanarsi nella durata. E lo è in quanto le radici dell’Incarnazione sono nell’evento salvifico della creazione. L’iconicità teomorfa è alla base della struttura d’essere dell’essere-uomo nel contesto rivelato. Di qui, il principio bergsoniano dell’uomo creato creatore. È questo l’incipit dell’arioso volume di José Luis Moral che qui presentiamo. Esso si pone come seconda fase di una trilogia programmata tra il primo (Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione, pubblicato nel 2007) e il successivo (Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, che apparirà all’inizio del 2009). In S. Giovanni Crisostomo troviamo formulato il categoriale teologico che fa da ermeneutica alla comprensione del dirsi della Parola. Ed è la syncatàbasis. Si tratta dell’atteggiamento fondamentale del Dio dell’uomo, che si abbassa (katà), camminando nella storia (bàsis), in compagnia dell’uomo (sùn). È qui chiaramente incluso l’adattamento di questo Dio ai passi dell’uomo, nella sua cultura, linguaggio, lenta evoluzione, nella sua faticosa limitatezza. Si celebra l’elasticità del permanete adventus Dei, “coevo – come notava Kierkegaard – a tutti gli evi”. Questa ac-con-discendenza o compagnia umile e gradualizzata di Dio rivelato altro non è che la sua pedagogia che, etimologicamente, connota appunto la gradualità del condurre il fanciullo ai traguardi educativi. La pastorale giovanile, che è l’indicazione incarnata e quindi la prassi ecclesiale coi giovani di oggi, trova nell’accompagnamento del Risorto coi due discepoli di Emmaus, il suo referente iconico. Egli si ammaglia nei loro problemi e nelle loro tristezze per farli uscire, attraverso un’accettata rilettura delle scritture, verso l’approdo di una figura del Messia contraria alle attese vigenti. E, successivamente, si inserisce nelle loro espressioni affettive e culturali di ospitalità, per restare e completare, all’interno della prassi di un convivio familiare, l’autorivelazione. Il Risorto, con la sua synkatàbasis fa alleanza coi due, parte dai loro linguaggi, dai loro problemi. Stabilisce Lui, in quanto Verbo, la comunicazione. E, in quanto Incarnato, una comunicazione inserita nei dinamismi antropologici e storici. L’antropologia contemporanea assume la storicità nella categoria della temporalità non più come un accidens bensì come una struttura costitutiva dell’essere-uomo. La realtà dell’uomo, nel metodo fenomenologia si appalesa come un esserci tendente al suo superamento, nello stadio metafisico dell’esser- si. Una pastorale giovanile, nel momento progettuale non può prescindere dalla connotazione essenziale, che è storica, del giovane del tempo del post-moderno, del pensiero debole, tentato di relativismo e inabitato dall’ospite inquietante o nihilismo. Così nelle previsioni di Nietzsche, Heidegger, che Galimberti applica oggi, in maniera privilegiata alla realtà giovanile col vuoto esistenziale e il dis-agio interiore che la caratterizza. E proprio questo tipo di giovane ha di mira Moral, ben sapendo che al pensiero debole si può rispondere con un pensiero forte, nel senso di motivato e fondato: Non, dunque, un pensiero fortemente gridato da filosofie o teologie connotate da sicurezze rigide e blindate, ma quello fortemente basato. E il fondamento è l’incastro nei dinamismi di fondo ad intra e nell’esperienza storica ad extra. In questo quadro, si colloca la trilogia del testo che procede, a tratti, con dialoghi dal vivo coi suoi allievi dei corsi universitari di Teologia della comunicazione e Pastorale giovanile e comunicazione. Questo modulo espositivo rende più coinvolgente il destinatario del messaggio. Il lettore si può sentire tra loro. Si può dire che esso è un testo confezionato nel laboratorio del confronto vivo coi corsisti, che registra i loro interventi di tipo esplicativo, obiettivo o integrativo. E sono lo specchio delle difficoltà, dei timori e delle speranze della gente di oggi, soprattutto dell’arcipelago dei giovani. È dunque come una ricerca peripatetica come degli antichi cenacoli o convivi di Platone. È pastorale giovanile in corso d’opera. Si prospetta così una delle forme della teologia narrativa. E nel duplice senso del raccontare i mirabilia Dei e poi nel riferire il resoconto di quanto l’Autore ha operato coi suoi allievi. In entrambi i casi è narratio humanae experientiae. Così, «la teologia della comunicazione assume i tratti di un’antropologia teologica della comunicazione» (p. 43). La sezione di base focalizza il tema di fondo: l’inedito volto di Dio che troviamo nella rivelazione ebraico-cristiana. È un Dio alla ricerca dell’uomo. In questo orizzonte, la fede dell’uomo in Dio ha come centro la fede di Dio nell’uomo. L’uomo crede in un Dio che crede nell’uomo e lo precede in questa fede di consegna (non solo fides quae, fides qua, ma anche fides in quem). E questo rifulge nel kairòs salvifico allorché Dio «ha desiderato presentarsi definitivamente ed esclusivamente nel volto e nella parola di Gesù di Nazareth e, tramite Lui, nei volti e nelle parole di tutti gli uomini» (p.14). Ed è proprio questo che prepara l’inaudita conseguenza: «L’essere umano è la grammatica di Dio. Nell’uomo risiede la chiave per decifrare tutti i messaggi di Dio». Con l’eccesso della rivelazione l’Autore può assumere l’espressione schellinghiana affermando: «il nostro è un Dio pazzo di amore» (p. 18). È questa sovrabbondanza che opera in noi il passaggio (la pasqua: pesah) da una concezione di uomo-rottame a quella di uomo nunuovo, titolare di gloria come fulgore divino in quanto oggetto di passione di Dio. Tale eccedenza dimensionale rispetto alle misure solite dell’umano suscita particolarmente nei giovani di oggi domande sulla inafferrabilità dell’enigma. Ed è questo lo spazio delicato che introduce pedagogicamente all’accettazione del mistero. È interessante nel testo il tocco antropologico del discorso: la realtà umana è inesauribile. Non è – viene analizzato bene – incasellabile, classificabile, tangibile e sensibile. È invece inafferrabile, incircoscrivibile dalla ragione. Non si può cum-prehendere l’orizzonte da cui sei compreso. Questo necessario passaggio (pp. 43-74) nel testo dispone al senso del mistero che oggi, nella comunicazione pastorale spesso viene supposto e non percorso. E ciò, a danno dell’accoglienza presso i destinatari immersi in un clima paradossale di razionalismo scientista e irrazionalismo sensista. Il merito di Moral è quello di aver preparato con un discorso piano e a larghi tratti dialogato, l’ingresso nell’area del contenuto multilaterale del mistero rivelato. E siamo nella seconda sezione. Discendono con articolazione stringata le grandi tematiche della creazione colta nella sua eziogenesi che è l’amore eterno, nella sua logica interna e nel suo telos che è quello salvifico totale che passa per Cristo Dio e uomo. In Lui la creazione raggiunge il suo punto omega nell’uomo divinizzato attraverso il Dio umanato (pp. 75-129). La terza sezione parte dalla teologia della syn-ergheia. La collaborazione dell’uomo, che è però soggetta a tradimenti, fallimenti, quanto meno scadimenti, di risposta libera che ascende alla proposta divina che discende. Ecco il rischio del peccato e della grazia. Il primo come rifiuto del dono, perciò vera dis-grazia (pp. 168-195). E poi quella del rilancio dell’impresa della grazia come essere «ricreato come umanizzazione per la fede» (p. 205). La ricreazione segna l’eccesso di Dio che porta al «culmine dell’eccesso: cieli nuovi e terra nuova» (p. 218). La collaborazione Dio-uomo staglia la misura dell’uomo biblico oltre ogni misura umana. Egli è creato-creatore. E questa indicazione bergsoniana fa da inclusio nel testo e ne è sottofondo musicale che sigla la terza parte e che è la derivazione strettamente articolata con le argomentazioni che la precedono. In coerenza con l’intento di fare un trattato di pastorale giovanile sul campo, il linguaggio è giovanile, ma mai dimesso rispetto alla grande ispirazione della fede nella fedeltà della sua esposizione. In questo quadro vanno lette alcune espressioni quali, per esemplificare, «la maniera finita di essere Dio» (p. 151) che segue al «modo infinito di essere uomo» (p. 131). Sono incluse nell’intento di ripensare il linguaggio teologico, incarnandolo, in omaggio all’Evento fondativo ed ermeneutico. Si tratta di tradurre sempre senza tradire mai. E riteniamo che questo intento, che è fondamentale per ogni discorso di ermeneutica, è riuscito all’Autore in uno … con la fluidità dell’esposizione. Ed è un impegno notevole ed esemplare.
Tratto dalla rivista "Salesianum" 72 (2010) 1, 179-181
(http://las.unisal.it)
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