Iran: religione, rivoluzione e democrazia
(Religioni e movimenti. Seconda serie) [Libro in brossura]EAN 9788801030174
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DETTAGLI DI «Iran: religione, rivoluzione e democrazia»
Tipo
Libro
Titolo
Iran: religione, rivoluzione e democrazia
Autori
Salzani Stefano, Zoccatelli Pierluigi
Editore
Elledici
EAN
9788801030174
Pagine
152
Data
luglio 2004
Peso
145 grammi
Altezza
18,5 cm
Larghezza
11,5 cm
Profondità
1,2 cm
Collana
Religioni e movimenti. Seconda serie
COMMENTI DEI LETTORI A «Iran: religione, rivoluzione e democrazia»
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Recensioni di riviste specialistiche su «Iran: religione, rivoluzione e democrazia»
Recensione di Carlo Saccone della rivista Studia Patavina
Questo agile volumetto si inserisce nella benemerita collana «Religione e Movimenti», diretta da Massimo Introvigne, che ha già prodotto parecchie opere di divulgazione di buono e talora ottimo livello. Non fa eccezione questa sintetica e intelligente esposizione centrata sull’Iran degli ayatollah, ossia su quel fenomeno sempre più sorprendente che è la Repubblica Islamica d’Iran, tornata anche negli ultimi tempi a occupare la prima pagina dei giornali.
L’A. indaga a fondo e con grande competenza gli aspetti religiosi di questa rivoluzione, presupposti storici, ideologici e teologici, strutturazione delle forze e delle correnti in campo, personaggi carismatici, temi di discussione dell’«agenda rivoluzionaria», prospettive future. Ne esce un quadro oltremodo complesso, tutt’altro che riducibile alla solita categoria del «fondamentalismo» o dell’«estremismo».
Sullo sfondo c’è indubbiamente il vecchio problema dei rapporti con la Modernità, problema affrontato da tutte le grandi religioni storiche e che pure l’Islam sta affrontando dall’‘800 (riforme ottomane, riformismo musulmano ecc.) in poi. Una modernità che - guardandola dal lato mediorientale - è arrivata prima sulle baionette degli eserciti napoleonici sbarcati in Egitto all’inizio del XIX sec.; ha continuato a espandersi poi inesorabilmente nei territori musulmani attraverso la gestione coloniale diretta di vasti territori: Maghreb francese, Libia italiana, Egitto e India britannici, Indonesia olandese, dominazione russo-zarista e poi bolscevica in Asia centrale turca) e la influenza più indiretta su altri vasti territori (anglo-russa in Iran, tedesca sull’impero ottomano). Una Modernità che, nel periodo tra le due guerre, ha assunto l’aspetto del fascismo italiano e del nazismo tedesco che ebbero in Atatürk in Turchia e in Reza Pahlavi in Iran degli ammiratori ingenui ma decisi a re-impiantare il modello «inculturandolo» brutalmente nei rispettivi paesi; una Modernità infine che, dall’ultimo dopoguerra a oggi, ha assunto l’aspetto apparentemente meno violento e perentorio, della tecnologia occidentale, delle mode occidentali, delle ideologie occidentali (dal socialismo arabo di Nasser all’edonismo-consumismo spensierato delle classi urbane che se lo possono permettere).
In sostanza una Modernità che agli occhi di tanti intellettuali mediorientali è stata (ed è tuttora…) sinonimo di una «occidentalizzazione» senza riserve che ha due padri poco nobili (il colonialismo e lo sfruttamento); è sinonimo di snaturamento, alienazione e allontanamento catastrofico dai valori tradizionali; è sinonimo infine, e soprattutto, di «ateismo pratico» di masse sempre più grandi, di «tradimento del messaggio del profeta», in definitiva di abbandono strisciante dell’Islam. Ecco, dobbiamo tenere ben presente questo contesto storico per valutare l’«esperimento iraniano».
Una realtà a molte voci, debitamente recensite e analizzate dall’A., in cui la lotta politica gira intorno al nodo cruciale del rapporto tra democrazia e islam. In persiano la parola per democrazia è democrasì (derivato evidentemente dal francese), in arabo dimucratiyya (arabo): quanto a dire che il termine stesso, di origini straniere, convoglia l’idea di una realtà importata, magari riadattata, comunque non «genuina».
Non meraviglia che la costituzione della repubblica islamica voluta da Khomeyni l’abbia sostituita con due concetti di origine coranica: shurà e ijma’, ossia grosso modo «consultazione/consiglio» e «consenso». Il primo termine si rifà alla consuetudine del profeta Maometto di consultarsi con la sua comunità prima di prendere qualche decisione (pratica che a sua volta rimanda alla antica «democrazia tribale» delle tribù arabe); il concetto di ijma’ è preso invece dal gergo dei giuristi musulmani. Non è solo un esempio, significativo, ri-scrittura di un concetto occidentale (democrazia) in termini concettuali che hanno radici autoctone; è in realtà il tentativo di fondare un sistema politico moderno che non si basi semplicemente sulla assunzione pura e semplice di categorie politiche «straniere» e l’abbandono senza rimpianti della tradizione (modello Atatürk). Che non si tratti di una riproposizione sotto altre parole di concetti «occidentali», lo si comprende anche dal fatto che un terzo - fondamentale - cardine di questa «democrazia islamica» è lo ijtihad, ovvero l’interpretazione qualificata delle fonti scritturali affidate alla comunità dei dottori e, in ultima istanza, alla Guida (l’ayatollah Khomeyni prima, l’ayatollah Khamane’i oggi) ossia la massima carica istituzionale della Repubblica Islamica. In questo sistema le leggi sono in realtà già state date, una volta per tutte, da Dio: il parlamento tecnicamente non legifera, bensì emana provvedimenti di attuazione e pianificazione. La comunità dei dottori esercita di conseguenza un ruolo fondamentale nell’attuale sistema politico iranico attraverso due organi: il Consiglio dei Guardiani che, per ogni «legge» licenziata dal Parlamento, emette un doppio giudizio di conformità alla Costituzione e alla Shari’a (legge religiosa), senza il quale nessun provvedimento può entrare in vigore; il Consiglio degli Esperti che esercita una funzione di controllo sulla stessa Guida.
Anche da questi pochi sommari riferimenti al sistema politico-costituzionale dell’Iran odierno appaiono evidenti «aporie» e difficoltà: il Parlamento e il Consiglio dei Guardiani hanno diverse fonti di legittimazione e «opposte» logiche di funzionamento: l’uno rappresenta la sovranità della volontà popolare, che emerge da elezioni a suffragio universale; l’altro, «rappresenta» la sovranità della shari’a, della legge divina, in ultima istanza della volontà di Dio. Anche il dibattito più attuale ha messo in luce queste «difficoltà sistemiche». Il principio - fortemente voluto da Khomeyni nella Costituzione - della velayat-e faqih (qualcosa come: governo/supervisione dei giureconsulti ovvero i dottori della legge religiosa) che sancisce il «diritto di ultima parola» per i religiosi, non si può certo facilmente conciliare col principio democratico della sovranità popolare. Che ne sarebbe ad esempio se, per ipotesi, il popolo scegliesse liberamente e democraticamente di smantellare la repubblica islamica? Il Consiglio dei Guardiani, o la Guida stessa - che rispondono in ultima analisi solo a Dio e alla sua volontà (la shari’a) -, non dovrebbero forse bloccare tutto? Il carattere islamico della repubblica, in definitiva, è negoziabile o no? Queste domande si poneva a esempio l’ex presidente Khatami, personaggio di straordinaria levatura intellettuale (in italiano si può leggere l’illuminante: Religione, libertà e democrazia, con prefazione di L. Violante, Laterza, Roma 1999).
Evidentemente ne va proprio della «democrazia», quantomeno intesa nel senso occidentale. Democrazia che secondo alcuni noti intellettuali (il filosofo Sorush, lo stesso Khatami) sarebbe pienamente compatibile con l’Islam e le sue sacre scritture sulla base di una sottile distinzione (che ha pure conseguenze non indifferenti anche sul piano dell’ermeneutica sacra): la rivelazione, il messaggio profetico sono di per sé cosa divina e immutabile, non così l’interpretazione che è umana e fallibile.
Un modo elegante per bacchettare i fondamentalisti di ogni risma e per accreditare l’idea che - già nel momento ermeneutica - non può che affermarsi una democrazia di fatto, nessuno possedendo l’interpretazione vera e definitiva. Queste posizioni sono state ampiamente sostenute anche attraverso numerosi scritti dal nominato Khatami nel periodo in cui era presidente della repubblica iraniana, ma - come tutti sanno - la sua battaglia per una repubblica islamica che senza remore faccia suo il principio democratico a tutti i livelli (ermeneutico, politico, istituzionale- decisionale ecc.) ha segnato il passo con l’elezione del successore Ahmadinejad, uomo che appartiene notoriamente a tutt’altra corrente.
Questo, e molti altri, sono i temi messi a fuoco nel pregevole volume di Salzani che è completato da una cronologia, un glossario di termini notevoli e una buona bibliografia orientativa.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2007, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
L’A. indaga a fondo e con grande competenza gli aspetti religiosi di questa rivoluzione, presupposti storici, ideologici e teologici, strutturazione delle forze e delle correnti in campo, personaggi carismatici, temi di discussione dell’«agenda rivoluzionaria», prospettive future. Ne esce un quadro oltremodo complesso, tutt’altro che riducibile alla solita categoria del «fondamentalismo» o dell’«estremismo».
Sullo sfondo c’è indubbiamente il vecchio problema dei rapporti con la Modernità, problema affrontato da tutte le grandi religioni storiche e che pure l’Islam sta affrontando dall’‘800 (riforme ottomane, riformismo musulmano ecc.) in poi. Una modernità che - guardandola dal lato mediorientale - è arrivata prima sulle baionette degli eserciti napoleonici sbarcati in Egitto all’inizio del XIX sec.; ha continuato a espandersi poi inesorabilmente nei territori musulmani attraverso la gestione coloniale diretta di vasti territori: Maghreb francese, Libia italiana, Egitto e India britannici, Indonesia olandese, dominazione russo-zarista e poi bolscevica in Asia centrale turca) e la influenza più indiretta su altri vasti territori (anglo-russa in Iran, tedesca sull’impero ottomano). Una Modernità che, nel periodo tra le due guerre, ha assunto l’aspetto del fascismo italiano e del nazismo tedesco che ebbero in Atatürk in Turchia e in Reza Pahlavi in Iran degli ammiratori ingenui ma decisi a re-impiantare il modello «inculturandolo» brutalmente nei rispettivi paesi; una Modernità infine che, dall’ultimo dopoguerra a oggi, ha assunto l’aspetto apparentemente meno violento e perentorio, della tecnologia occidentale, delle mode occidentali, delle ideologie occidentali (dal socialismo arabo di Nasser all’edonismo-consumismo spensierato delle classi urbane che se lo possono permettere).
In sostanza una Modernità che agli occhi di tanti intellettuali mediorientali è stata (ed è tuttora…) sinonimo di una «occidentalizzazione» senza riserve che ha due padri poco nobili (il colonialismo e lo sfruttamento); è sinonimo di snaturamento, alienazione e allontanamento catastrofico dai valori tradizionali; è sinonimo infine, e soprattutto, di «ateismo pratico» di masse sempre più grandi, di «tradimento del messaggio del profeta», in definitiva di abbandono strisciante dell’Islam. Ecco, dobbiamo tenere ben presente questo contesto storico per valutare l’«esperimento iraniano».
Una realtà a molte voci, debitamente recensite e analizzate dall’A., in cui la lotta politica gira intorno al nodo cruciale del rapporto tra democrazia e islam. In persiano la parola per democrazia è democrasì (derivato evidentemente dal francese), in arabo dimucratiyya (arabo): quanto a dire che il termine stesso, di origini straniere, convoglia l’idea di una realtà importata, magari riadattata, comunque non «genuina».
Non meraviglia che la costituzione della repubblica islamica voluta da Khomeyni l’abbia sostituita con due concetti di origine coranica: shurà e ijma’, ossia grosso modo «consultazione/consiglio» e «consenso». Il primo termine si rifà alla consuetudine del profeta Maometto di consultarsi con la sua comunità prima di prendere qualche decisione (pratica che a sua volta rimanda alla antica «democrazia tribale» delle tribù arabe); il concetto di ijma’ è preso invece dal gergo dei giuristi musulmani. Non è solo un esempio, significativo, ri-scrittura di un concetto occidentale (democrazia) in termini concettuali che hanno radici autoctone; è in realtà il tentativo di fondare un sistema politico moderno che non si basi semplicemente sulla assunzione pura e semplice di categorie politiche «straniere» e l’abbandono senza rimpianti della tradizione (modello Atatürk). Che non si tratti di una riproposizione sotto altre parole di concetti «occidentali», lo si comprende anche dal fatto che un terzo - fondamentale - cardine di questa «democrazia islamica» è lo ijtihad, ovvero l’interpretazione qualificata delle fonti scritturali affidate alla comunità dei dottori e, in ultima istanza, alla Guida (l’ayatollah Khomeyni prima, l’ayatollah Khamane’i oggi) ossia la massima carica istituzionale della Repubblica Islamica. In questo sistema le leggi sono in realtà già state date, una volta per tutte, da Dio: il parlamento tecnicamente non legifera, bensì emana provvedimenti di attuazione e pianificazione. La comunità dei dottori esercita di conseguenza un ruolo fondamentale nell’attuale sistema politico iranico attraverso due organi: il Consiglio dei Guardiani che, per ogni «legge» licenziata dal Parlamento, emette un doppio giudizio di conformità alla Costituzione e alla Shari’a (legge religiosa), senza il quale nessun provvedimento può entrare in vigore; il Consiglio degli Esperti che esercita una funzione di controllo sulla stessa Guida.
Anche da questi pochi sommari riferimenti al sistema politico-costituzionale dell’Iran odierno appaiono evidenti «aporie» e difficoltà: il Parlamento e il Consiglio dei Guardiani hanno diverse fonti di legittimazione e «opposte» logiche di funzionamento: l’uno rappresenta la sovranità della volontà popolare, che emerge da elezioni a suffragio universale; l’altro, «rappresenta» la sovranità della shari’a, della legge divina, in ultima istanza della volontà di Dio. Anche il dibattito più attuale ha messo in luce queste «difficoltà sistemiche». Il principio - fortemente voluto da Khomeyni nella Costituzione - della velayat-e faqih (qualcosa come: governo/supervisione dei giureconsulti ovvero i dottori della legge religiosa) che sancisce il «diritto di ultima parola» per i religiosi, non si può certo facilmente conciliare col principio democratico della sovranità popolare. Che ne sarebbe ad esempio se, per ipotesi, il popolo scegliesse liberamente e democraticamente di smantellare la repubblica islamica? Il Consiglio dei Guardiani, o la Guida stessa - che rispondono in ultima analisi solo a Dio e alla sua volontà (la shari’a) -, non dovrebbero forse bloccare tutto? Il carattere islamico della repubblica, in definitiva, è negoziabile o no? Queste domande si poneva a esempio l’ex presidente Khatami, personaggio di straordinaria levatura intellettuale (in italiano si può leggere l’illuminante: Religione, libertà e democrazia, con prefazione di L. Violante, Laterza, Roma 1999).
Evidentemente ne va proprio della «democrazia», quantomeno intesa nel senso occidentale. Democrazia che secondo alcuni noti intellettuali (il filosofo Sorush, lo stesso Khatami) sarebbe pienamente compatibile con l’Islam e le sue sacre scritture sulla base di una sottile distinzione (che ha pure conseguenze non indifferenti anche sul piano dell’ermeneutica sacra): la rivelazione, il messaggio profetico sono di per sé cosa divina e immutabile, non così l’interpretazione che è umana e fallibile.
Un modo elegante per bacchettare i fondamentalisti di ogni risma e per accreditare l’idea che - già nel momento ermeneutica - non può che affermarsi una democrazia di fatto, nessuno possedendo l’interpretazione vera e definitiva. Queste posizioni sono state ampiamente sostenute anche attraverso numerosi scritti dal nominato Khatami nel periodo in cui era presidente della repubblica iraniana, ma - come tutti sanno - la sua battaglia per una repubblica islamica che senza remore faccia suo il principio democratico a tutti i livelli (ermeneutico, politico, istituzionale- decisionale ecc.) ha segnato il passo con l’elezione del successore Ahmadinejad, uomo che appartiene notoriamente a tutt’altra corrente.
Questo, e molti altri, sono i temi messi a fuoco nel pregevole volume di Salzani che è completato da una cronologia, un glossario di termini notevoli e una buona bibliografia orientativa.
Tratto dalla rivista "Studia Patavina" 2007, nr. 3
(http://www.fttr.glauco.it/pls/fttr/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=271)
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