Darwin e Dio
-Fede, evoluzione, etica
(Il Pellicano Rosso. Nuova serie)EAN 9788837223144
Simone Morandini ha la grazia, tutta personale come ogni grazia, di saper leggere la realtà complessa che ci circonda come un mondo geometricamente ordinato in cui ogni cosa va con un moto quasi spontaneo al proprio posto. E così, con le competenze che gli derivano dall’essere insieme teologo (insegna all’Istituto ecumenico San Bernardino di Venezia) e uomo di scienza (ha una cattedra di Matematica e fisica nel liceo della sua città) costruisce da tempo percorsi di dialogo fra fede e saperi scientifici (fra i suoi ultimi lavori, Teologia e fisica, Morcelliana, Brescia 2007). Ora questo anno di ricorrenze darwiniane (duecento anni dalla nascita di Charles Darwin e centocinquant’anni dalla pubblicazione de L’origine delle specie; cf. Regnoatt. 14,2009,489) gli ha offerto l’occasione di affrontare il tema dell’evoluzionismo, «vero e proprio fronte di lotta per il rapporto fra scienza e fede» (6). E la lotta si è riaccesa proprio negli ultimi anni, con l’avvicinarsi dell’anniversario, che ha suscitato una quantità impressionante di studi, sia sul versante del darwinismo e neodarwinismo, sia su quello dei suoi critici. Morandini parte da alcuni punti ben fissati. Primo: è necessario conoscere la teoria evoluzionistica come Darwin l’ha formulata e come nel tempo è stata, e soprattutto ancora è, dibattuta dalla comunità scientifica. Questo non è facile oggi, perché «l’alto livello di specializzazione linguistica della pubblicistica scientifica costringe spesso i non addetti ai lavori a limitarsi alla divulgazione, nella quale di frequente il dato specificamente scientifico è strettamente intrecciato con l’interpretazione del divulgatore, con le sue opinioni, le sue speranze, i suoi desideri e le sue antipatie» (83).
Quindi il confronto richiede competenza e prudenza. Secondo: il naturalismo metodologico, di derivazione popperiana, ovvero la «sistematica rinuncia al riferimento alla realtà di Dio nella spiegazione delle relazioni fra fenomeni fisici e biologici del mondo», è «una prospettiva che si trova oggi legittimata dalla sua stessa efficacia, quale si manifesta in campi del sapere sempre più ampi» , ma «non implica affatto quel naturalismo ontologico che negherebbe l’esistenza di ogni realtà che ecceda il naturale e l’esperibile». Quindi è scorretto cercare pregiudizialmente «falle nel sapere scientifico – e specialmente nella biologia evoluzionistica – a partire dalle quali postulare riferimenti a un agire divino» (18- 20). Terzo: si deve «muovere da un serio ed esplicito riconoscimento dell’evoluzionismo di matrice darwiniana in quanto espressione attuale di un progetto che sul piano scientifico è coronato da ampio successo» (70), e insieme si deve saper riconoscere che il dibattito interno alla comunità scientifica sul darwinismo non mostra la fragilità, ma «la potenza dell’intuizione scientifica di un ricercatore che aveva a disposizione conoscenze così scarse circa la base fisica della trasmissione dell’eredità» (75). Sminuire Darwin per salvare Dio è un’operazione che non porta da nessuna parte, vuol dire Morandini. Perché le obiezioni al darwinismo (l’incompiutezza della documentazione fossile, oppure l’incomprimibile complessità di alcune realtà biologiche come l’occhio umano) sono fragili e dalla stragrande maggioranza dei ricercatori non sono considerate capaci di minare «la capacità esplicativa del paradigma evoluzionistico» (77). Perché un approccio simile inchioda il teologo a percepire la moderna ricerca scientifica – si può pensare ad esempio alle neuroscienze – come una minaccia invece che come un’opportunità di confronto. Ma soprattutto perché far abitare Dio nelle crepe lasciate aperte dalla ragione scientifica, legare il discorso di fede agli «spazi di ignoranza residuale che sopravvivono all’avanzamento della scienza» (22) è semplicemente non biblico.
Il Dio della Bibbia parla agli uomini nel cuore della loro vita e dei loro orizzonti di conoscenza. L’obiezione di spingere Dio ai margini della conoscenza scientifica non può essere mossa all’idea dell’intelligent design che, pur accettando la realtà dell’evoluzione biologica dei viventi, afferma la necessità scientifica di un disegno superiore che renda ragione della complessità del suo sviluppo. Si tratta di un’idea nata in America in ambiente protestante, nella seconda metà del secolo scorso. Negli ultimi anni è stata riformulata in modo originale dal card. Schönborn nel corso di un’intervista rilasciata nel 2005 al New York Times: «Qualunque sistema di pensiero che nega o cerca di spiegare completamente la schiacciante evidenza di un disegno in biologia è ideologia, non scienza» e poi chiarita e declinata in molti successivi suoi interventi. Morandini dedica il capitolo IV del suo lavoro all’analisi di quest’ipotesi per concludere che nonostante «l’apparente buon senso delle assunzioni su cui essa è basata, non regge all’esame della ragione scientifica stessa», semplicemente perché non v’è traccia scientificamente rilevabile di questo disegno (81). Ciò lascia comunque aperto tutto lo spazio alla domanda sul significato della realtà letta e interpretata dalla conoscenza scientifica. Spazio nel quale abita lo scienziato stesso, che di necessità, come essere umano, studia e indaga a partire da una personale «anticipazione di senso» (90). Non trovare tracce di un’evidente intenzionalità di Dio nella selezione naturale non significa dire che la fede è irrilevante, né che l’evoluzionismo scientifico sia di per sé ateo, come vorrebbe ad esempio Richard Dawkins (L’orologiaio cieco, Il gene egoista, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, tutti Mondadori).
Significa invece affermare che sono possibili prospettive di senso diverse fra loro, e fra queste anche quella di chi vede un agire di Dio che opera entro e attraverso l’intreccio delle cause fisiche e biologiche allineate dalla teoria darwiniana. Un agire di Dio discretissimo e nascosto nello spazio dell’evoluzione, che appella e non impone, che si afferra nella decisione della fede. Questa prospettiva apre la strada a una concezione antropologica capace di cogliere «nitidi elementi di discontinuità legati all’entrata in scena dell’essere umano», ma sempre rimanendo all’interno della continuità dell’evoluzione. Si tratta di un «salto nel quale il credente riconosce all’opera in modo particolare lo Spirito di Dio, ma un salto che si realizza proprio nell’anonimo operare delle dinamiche evolutive» (138). La discontinuità è legata alla progressiva crescita dell’individualità e della capacità di automodellarsi e quindi di esercitare la libertà, che è propria dell’uomo. Morandini illustra passo passo questo processo come risultato della ricerca biologica e non come il prodotto di un approccio teologico o filosofico. Allo scienziato il manifestarsi della libertà nell’uomo può apparire come l’esito finale di accadimenti contingenti, ma questo apre comunque alla possibilità d’interrogarsi sulla rilevanza di quel che accade e sul valore di quel che è nato (120ss). Il regalo che arriva all’uomo dall’accettare la propria collocazione all’interno del mondo della natura è la possibilità di leggere la vita come categoria unificante (biocentrismo) e di pensare «una forte e articolata etica della vita, attenta alle specificità del riferimento agli uomini e alle donne, ma anche al creato nella varietà delle sue componenti, proprio nell’orizzonte di discorso della scienza» (143).
È la capacità di percepire l’unità della vita e di difenderla e amarla in tutte le sue forme, pur sempre rispettando la singolarità umana: un’etica dell’antropocentrismo solidale con la vita. Morandini offre qui un saggio di ben pensare, che probabilmente farà discutere: ad esempio al capitolo VI sul posto dell’uomo nell’evoluzione la sua prosa cartesiana diventa a volte riottosa a liberare l’argomentazione per intero. È un pensare «buono» che vuole bruciare il terreno alle malerbe del pregiudizio e soprattutto dell’ignoranza e che riflette il percorso personale di Morandini, il quale percepisce galileianamente in armonia la fede e la scienza, e al quale pare impossibile che vi sia chi si applica a scavar fossati invece che a percorrere senza paure ponti che molti onesti scienziati credenti e non credenti hanno già contribuito a costruire. Darwin arrivò tardi all’agnosticismo. Le biografie ci parlano di una vita ferita da dolori familiari (la perdita dell’amatissima figlia Anna), fisici (le frequenti malattie), professionali (le aspre incomprensioni della comunità scientifica), vita dedicata all’elaborazione di una teoria in cui il «male» della natura, nella forma della lotta per l’esistenza e delle catastrofi ambientali, ha una posizione determinante: «Mi sembra che esista troppa infelicità nel mondo», scriveva. È questa esistenza che registra, alla fine, l’abbandono doloroso della fede in cui Darwin era cresciuto e a cui lo legava anche il grande affetto per la moglie Emma, profondamente religiosa. Il confronto con una teoria scientifica così disegnata dalla presenza del male della natura può aiutare il pensiero della fede a conservare la centralità del suo riscatto, che ha valore solo se il male non è negato, ma è riconosciuto nella sua forma storica, naturale e individuale.
Tratto dalla Rivista Il Regno 2009 n. 16
(http://www.ilregno.it)
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