La lettura di questo libro è un viaggio alla scoperta del pane inteso come «la manna della terra, opera laica a immagine e somiglianza di quella caduta nella quarantena del deserto» (dalla Postfazione di Erri De Luca, 230), un valore di cui oggi si è perso il senso, ma che è necessario riscoprire perché contiene «il valore aggiunto dei popoli » e fa parte della nostra storia. «Il pane è prodotto della natura e della cultura. È stato condizione di pace e causa di guerra, pegno di speranza e motivo di disperazione. Le religioni lo benedicevano. Il popolino giurava su di esso. Sono disgraziati i paesi dove non c’è abbastanza pane per tutti. Ma, per contro, non sono felici neppure quelli dove c’è solo pane» (17). Già dalle prime pagine si respira la cura e l’attenta ricerca che Predrag Matvejevicé ha dedicato, da studioso, alla storia e al tema del pane, ma affiora con forza anche la sua esperienza personale: quella di quando da bambino fece piangere di commozione il prigioniero tedesco a cui aveva donato un pezzo di pane; quella dello zio Vladimir che morì di stenti invocando un pezzo di pane; quella del padre, che sopravvissuto al campo di concentramento gli ha insegnato il valore del pane; quella dei suoi lunghi anni trascorsi tra «asilo ed esilio».
Un percorso che parte dalla riflessione dedicata al legame fra il pane e il corpo – «È stato detto molte volte che il corpo e il pane s’intendono fra loro: quando il pane è vero e il corpo sano. Tutti i cinque sensi, ognuno a modo proprio, sono collegati al pane» (20) – e che conduce verso le infinite «vie del pane» che «attraversano spazio e tempo» (41) da Oriente a Occidente, dalla Mesopotamia all’antica Cordova in cui dicono che s’impastasse «il miglior pane dell’Andalusia» (79) nel XIII secolo. Ma il pane è presente anche «nella fede e nella preghiera. La tradizione lo ha inserito nel rito e nella liturgia. È stato consacrato dal Talmud e dalla Bibbia. Lo si trova nei miti del vicino e lontano Oriente. Viene menzionato nel Corano e negli hadith islamici. Spesso il percorso del pane e quello della religione si sono sovrapposti o hanno camminato paralleli. Non sempre e non dappertutto. Ma là dove si sono separati, ecco subentrare scontri e dissidi» (83). Il viaggio nella storia del pane continua nel quarto capitolo – «Le sette croste» [1] – alla scoperta che «molti sono i destini, collettivi e singoli, che dipendevano e dipendono dal pane, in vari modi e in diversa misura. Ma alcuni esseri umani hanno forse patito più degli altri: i santi, gli eremiti e i monaci, gli anacoreti, i pellegrini, i marinai e i carcerati, i mendicanti e gli zingari, i poveri. Per tutti costoro il pane dalle sette croste è stato il ristoro del corpo e il sostegno dell’anima» (129s). Interessante è pensare anche come il pane sia presente ancora oggi nei modi di dire, «che cercano di riassumere l’esperienza e la saggezza, creando così una sorta di enciclopedia popolare: essere “buono come il pane”, “guadagnarsi il pane”, ottenere il pane “con il sudore della fronte”, “dividere il pane” con gli altri, restare “senza pane” cioè senza lavoro» (201s), «portare a casa la pagnotta», sopravvivere a «pane e acqua» e così via.
Un’enciclopedia popolare che influisce sulla letteratura: dai Salmi e dai filosofi come Platone e Aristotele fino a Dostoevskij e il Mahatma Gandhi – «secondo lo scrittore cristiano Charles Péguy, “colui a cui manca il pane quotidiano perde anche il senso di quello eterno”» (204) – e nelle immagini e nell’arte (di cui si parla ampiamente nei capitoli 5 e 6). Il settimo capitolo, quello conclusivo, svela «i motivi e i pretesti» che hanno condotto l’autore a trattare il tema del pane: «Il paese dove siamo nati e dove siamo cresciuti ci ha donato il sapore del suo pane. Quando il destino ci spinge o ci esilia in un’altra terra, ce lo portiamo con noi, in noi. Chi perde questo sapore, perde una parte del proprio paese e di se stesso» (215). Ecco l’importanza di questo cammino: la nostra identità e quella del nostro paese passa per il sapore del pane e, con le parole di Enzo Bianchi nella Prefazione, «ricorda a tutti che il pane o è “nostro”, condiviso, oppure cessa di essere pane».
Tratto dalla Rivista Il Regno 2011 n. 6
(http://www.ilregno.it)
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1 «Il pane dalle sette croste veniva menzionato in varie circostanze, fino a diventare un intercalare proverbiale. Forse cominciarono a chiamarlo così, prima degli altri, i marinai che navigavano a lungo rosicchiando il duro biscotto» (129).
2 Anche Enzo Bianchi ha pubblicato un volume sul tema del pane: Il pane di ieri; Einaudi, Torino 2008.
La lettura di questo libro è un viaggio alla scoperta del pane inteso come «la manna della terra, opera laica a immagine e somiglianza di quella caduta nella quarantena del deserto» (dalla Postfazione di Erri De Luca, 230), un valore di cui oggi si è perso il senso, ma che è necessario riscoprire perché contiene «il valore aggiunto dei popoli » e fa parte della nostra storia. «Il pane è prodotto della natura e della cultura. È stato condizione di pace e causa di guerra, pegno di speranza e motivo di disperazione. Le religioni lo benedicevano. Il popolino giurava su di esso. Sono disgraziati i paesi dove non c’è abbastanza pane per tutti. Ma, per contro, non sono felici neppure quelli dove c’è solo pane» (17). Già dalle prime pagine si respira la cura e l’attenta ricerca che Predrag Matvejevicé ha dedicato, da studioso, alla storia e al tema del pane, ma affiora con forza anche la sua esperienza personale: quella di quando da bambino fece piangere di commozione il prigioniero tedesco a cui aveva donato un pezzo di pane; quella dello zio Vladimir che morì di stenti invocando un pezzo di pane; quella del padre, che sopravvissuto al campo di concentramento gli ha insegnato il valore del pane; quella dei suoi lunghi anni trascorsi tra «asilo ed esilio».
Un percorso che parte dalla riflessione dedicata al legame fra il pane e il corpo – «È stato detto molte volte che il corpo e il pane s’intendono fra loro: quando il pane è vero e il corpo sano. Tutti i cinque sensi, ognuno a modo proprio, sono collegati al pane» (20) – e che conduce verso le infinite «vie del pane» che «attraversano spazio e tempo» (41) da Oriente a Occidente, dalla Mesopotamia all’antica Cordova in cui dicono che s’impastasse «il miglior pane dell’Andalusia» (79) nel XIII secolo. Ma il pane è presente anche «nella fede e nella preghiera. La tradizione lo ha inserito nel rito e nella liturgia. È stato consacrato dal Talmud e dalla Bibbia. Lo si trova nei miti del vicino e lontano Oriente. Viene menzionato nel Corano e negli hadith islamici. Spesso il percorso del pane e quello della religione si sono sovrapposti o hanno camminato paralleli. Non sempre e non dappertutto. Ma là dove si sono separati, ecco subentrare scontri e dissidi» (83). Il viaggio nella storia del pane continua nel quarto capitolo – «Le sette croste»1 – alla scoperta che «molti sono i destini, collettivi e singoli, che dipendevano e dipendono dal pane, in vari modi e in diversa misura. Ma alcuni esseri umani hanno forse patito più degli altri: i santi, gli eremiti e i monaci, gli anacoreti, i pellegrini, i marinai e i carcerati, i mendicanti e gli zingari, i poveri. Per tutti costoro il pane dalle sette croste è stato il ristoro del corpo e il sostegno dell’anima» (129s). Interessante è pensare anche come il pane sia presente ancora oggi nei modi di dire, «che cercano di riassumere l’esperienza e la saggezza, creando così una sorta di enciclopedia popolare: essere “buono come il pane”, “guadagnarsi il pane”, ottenere il pane “con il sudore della fronte”, “dividere il pane” con gli altri, restare “senza pane” cioè senza lavoro» (201s), «portare a casa la pagnotta», sopravvivere a «pane e acqua» e così via.
Un’enciclopedia popolare che influisce sulla letteratura: dai Salmi e dai filosofi come Platone e Aristotele fino a Dostoevskij e il Mahatma Gandhi – «secondo lo scrittore cristiano Charles Péguy, “colui a cui manca il pane quotidiano perde anche il senso di quello eterno”» (204) – e nelle immagini e nell’arte (di cui si parla ampiamente nei capitoli 5 e 6). Il settimo capitolo, quello conclusivo, svela «i motivi e i pretesti» che hanno condotto l’autore a trattare il tema del pane: «Il paese dove siamo nati e dove siamo cresciuti ci ha donato il sapore del suo pane. Quando il destino ci spinge o ci esilia in un’altra terra, ce lo portiamo con noi, in noi. Chi perde questo sapore, perde una parte del proprio paese e di se stesso» (215). Ecco l’importanza di questo cammino: la nostra identità e quella del nostro paese passa per il sapore del pane e, con le parole di Enzo Bianchi nella Prefazione, «ricorda a tutti che il pane o è “nostro”, condiviso, oppure cessa di essere pane».
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1 «Il pane dalle sette croste veniva menzionato in varie circostanze, fino a diventare un intercalare proverbiale. Forse cominciarono a chiamarlo così, prima degli altri, i marinai che navigavano a lungo rosicchiando il duro biscotto» (129).
2 Anche Enzo Bianchi ha pubblicato un volume sul tema del pane: Il pane di ieri; Einaudi, Torino 2008.